un giorno, poco più di una settimana fa, tornavo verso l’ufficio dopo una breve pausa. passavo per una piazzetta dietro la casa dove abiterò ancora per pochi giorni, accanto ad una chiesa di rito copto. aveva appena smesso di piovere ed una ragazza molto giovane, bruna, volto corrucciato e sguardo perso in avanti, camminava con passo deciso incontro a me. la seguiva un ragazzo, coetaneo, biondino, di quel biondo un po’ anonimo, con il viso segnato dall’acne e le sopracciglia piegate ad un muto appello. aveva in mano un ombrello, di quelli pieghevoli, per l’appunto ripiegato. lo stringeva con entrambe le mani. quasi fosse l’ombrellino a sorreggere lui, e non viceversa. disse, portando la voce un po’ in avanti, verso lei: allora oggi pomeriggio andiamo a …. ? lei fece un gesto, senza girarsi, con la mano a cornetta vicino all’orecchio, come a dire: telefonami. lui, con sguardo ancora più intensamente appellante: ma ci vediamo comunque? ….alle cinque? lei ancora senza voltarsi e continuando a camminare scosse la testa, in un muto ma deciso diniego.
Io ero oramai passata oltre, non potevo fermarmi, sarei stata notata per la mia indiscrezione. ma arrivata in fondo al vicolo, quando oramai dovevo forzatamente svoltare e perdere il contatto visivo e auditivo della scena, non resistetti e mi voltai.
lui era fermo all’angolo prima della piazzetta. lei inesorabilmente andata. era rimasto li, attaccato al suo ombrellino, tirando e richiudendo il piccolo manico, guardando nella direzione in cui lei era sparita.
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ero nella casetta di periferia, con il falegname che mi aiutava a montare mobili. anzi lui li montava mentre io giravo per casa tentando di creare pile di scatole adatte al transito da una stanza a l’altra. avevo deciso di fare una pausa ed avevo comprato per entrambi e per il piccoletto della pizza alla pala, in una rosticceria che sicuramente sarà il mio punto di riferimento per i prossimi giorni.
mangiando, in piedi, nella piccola cucina, ci siamo messi a parlare di case, e lavori, e figli. e così ho scoperto che il figlio del falegname, di cui purtroppo continuo a non ricordare il nome – che è un nome da uomo in romania – certamente – ma che in italia sembra un nome da donna – ho scoperto dicevo che il figlio ha undici anni. lo avevo visto la domenica prima, con la madre, quando erano venuti a casa mia, la casa dove abiterò ancora per sei giorni, per vedere il lavoro da fare. e mi era sembrato coetaneo del mio, del piccoletto, che ha nove anni. invece lui ne ha undici, ma non ancora compiuti, mi dice m. (l’iniziale del nome la ricordo) con occhi orgogliosi, li farà questo mese. ed il piccolo figlio del falegname, già da due anni, la mattina va a scuola da solo. ora frequenta la prima media, ma lo faceva già alle elementari. e poi all’ora di pranzo esce di scuola, da solo e da solo va a casa, dove mangia da solo e rimane da solo fino al ritorno della madre. il padre torna più tardi. vivono in un paese vicino roma ed entrambi lavorano in città. lui falegname, lei fa “le pulizie”. in una casa di piazza di spagna, da tredici anni, sempre la stessa famiglia, mi dice lui, sempre con sguardo orgoglioso. tranne quando ha avuto il bambino. i primi anni era venuta la suocera, dalla romania, per aiutarli. ma poi era ripartita, e loro si sono organizzati così.
Il pensiero di quel bimbo già così autonomo, mentre il piccoletto ha bisogno quasi che gli infili ancora le mutande mi ha fatto molto pensare.
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una mattina, pochi giorni fa, passavo in macchina, con il piccoletto, accanto ad una scuola occupata. l’avevano occupata pochi giorni prima, e noi c’eravamo. passavamo proprio mentre veniva tirato fuori dalle finestre uno striscione e tutti i ragazzi sotto ad applaudire….. ho spiegato al piccoletto cosa è un’occupazione, e come sicuramente succederà anche a lui, così come è successo alla ventiduenne, di dormire a scuola in un sacco a pelo, sdraiato sopra due banchi uniti. quella mattina fuori la scuola c’erano studenti, insegnanti, qualche genitore. passando con la macchina, lentamente per non urtare nessuno, ho notato un gruppetto di ragazzini intorno ad un biondino con la chitarra a tracolla. erano lì che aspettavano che lui trovasse il giusto accordo. e lui, con un sorriso molto soddisfatto lo ha preso quell’accordo, ed ha iniziato a suonare e cantare una canzone in inglese che non conoscevo affatto. io però ero molto più concentrata sul suo volto, che non sulla melodia. mi chiedevo dove avevo già conosciuto quel ragazzo. un volto familiare, quasi intimo. pochi metri e con la macchina li ho superati, svoltando sulla piazza del monte dei pegni. ed ecco che mi sono ricordata. del ragazzino dopo la pioggia, delle sue mani strette sull’ombrello, e di lei che se ne era andata.
chissà se ora era li, tra la folla di ragazzi sotto la scuola occupata, a sentirlo suonare la sua canzone……