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Archivio mensile:gennaio 2014

Se non fosse che sono così maledettamente educata
Se non fosse che Ogni scelta personale è per me sacrosanta
Se non fosse che vorrei tentare di mantenere un minimo di dignità
Manderei a farsi fottere chi continua a fare gli stessi stupidi giochini
Spaccherei la faccia all’opportunista che si copre il capo con il velo del lutto
Insulterei a sangue chi persiste nel regalare anelli di plastica spacciandoli per diamanti.
La vergogna questa sconosciuta.

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Come-aprire-un-pubEntro nella locanda. 
La differenza di temperatura mi sorprende piacevolmente. Fuori il freddo umido di una serata piovosa, dentro il caldo un poco puzzolente di cibo e umanità.

Vado al banco, sono sola e non mi va di sedermi a un tavolo. Questa benedetta abitudine femminile di non attirare l’attenzione. Chiedo una birra, rossa. Ho voglia di alcolici destrutturanti. Ho bisogno di spegnere il mio cervello per qualche ora.

Mi siedo su uno sgabello alto e inizio a sorseggiare la mia Leffe Cuveè, prodotta in Belgio, birra d’Abbazia a 8.4 gradi, temperatura ambiente.

Giro attorno gli occhi, più per vezzo che non per reale interesse alla varia umanità raccolta in quel locale. A ore dodici il mio sguardo si blocca. Un tavolo con un uomo e una donna. Inizialmente la mia attenzione è attratta dalla sensualità con la quale si stanno guardando. Dalla bellezza della giovane donna, e dalla prestanza del suo uomo. Un momento dopo mi fisso su di lui. Ha una gamba che finisce proprio sopra la coscia. Una stampella appoggiata alla sedia e il pantalone cucito poco dopo la fine del moncherino.

Il barista non è esattamente mio amico. Mi ha visto sì e no altre due volte. Ma ha voglia di parlare e ha intercettato il mio sguardo.

– Hai visto? Quel pezzo di figliolo! E pensa che fino a un mese fa non me ne ero accorto perché aveva una gamba finta. Sai com’è successo? Incredibile…

Anche se di solito scoraggio le confidenze, sono troppo attratta dalla storia per bloccarlo.

– Era in moto con la ragazza, quella che sta con lui al tavolo, quando ha avuto l’incidente. E’ andato contro il guardrail. Si è tranciato la gamba. La ragazza niente, solo qualche escoriazione. Un automobilista si è subito fermato e ha avuto la forza di bloccare l’emoraggia con le mani e di calmarlo e di parlargli per tutto il tempo che c’è voluto prima che arrivasse l’ambulanza. Gli ha salvato la vita sai? Lui era sotto shock, ma dopo qualche tempo l’ha cercato e l’ha incontrato e ringraziato per quell’interminabile mezz’ora a tenere stretta la sua coscia  per non farlo morire dissanguato, parlandogli con calma per non farlo impazzire.

Resto in silenzio, senza parole. Non riesco a immaginare lo shock subito da quei tre. Il ragazzo senza più una gamba, la ragazza in terra e l’uomo a fermare il sangue.

Dal tavolo si accorgono che io e il barista stiamo parlando di loro. Li stiamo evidentemente fissando in modo sfacciato. L’uomo ammiccando mi fa cenno con una mano di accomodarmi sulla sedia libera accanto a loro. La donna mi sorride. Mi siedo al loro tavolo. Mi scuso  per l’invadenza.

– Non ti preoccupare, ci siamo abituati – dice lei – Quando avevo la gamba artificiale, nessuno ci faceva caso – aggiunge lui – ma ora ho un problema, un’infezione, e non posso portarla per un po’. Ho esagerato con gli allenamenti.

Lo guardo interrogativa.

– Prima dell’incidente io correvo – dice – e anche parecchio. Partecipavo a gare e maratone. Mi sono fatto preparare un arto artificiale sperimentale. Tipo quello di Pistorius, hai presente?

Annuisco.

– Ho fatto parecchie gare. Mi sono piazzato niente male, sai? Ma ora ho un’infezione al moncherino e devo stare un po’ a riposo.

Mi parla con la tranquillità con cui si racconta di un taglio di capelli riuscito male. Poco importa tanto ricrescono.

Mi spiega di come ha superato lo shock grazie alle cure della sua ragazza. Lei è stata fantastica, dice.  E la guarda con dolcezza mentre le accarezza la mano. Ora si sono sposati, stanno cercando di avere un figlio.

Poi con aria molto complice mette i gomiti sul tavolo e avvicina il suo volto al mio.

– Non ho perso la gamba per caso, sai?

Non capisco

– Quell’incidente mi ha salvato la vita. I medici hanno recuperato l’arto amputato e lo hanno esaminato per capire se avevano un margine per tentare una ricostruzione. I chirurghi sono fissati sul riattaccare pezzi di corpo. Hanno scoperto che avevo un melanoma sotto il ginocchio.

Lo guardo esterrefatta.

– Si. Avevo un cancro alla gamba. Non me ne sarei accorto, probabilmente. Era un melanoma maligno, molto aggressivo. Mi hanno detto che quasi certamente mi avrebbe ucciso.  Capisci che fortuna? L’incidente mi ha strappato via la gamba e mi ha salvato la vita.

Questo il sogno.

Quando mi sveglio, sono sudata ed è ancora notte.

Il senso del sogno mi appare subito in tutta la sua crudele realtà.

il caso non esite e sono approdata a questo blog (da leggere tutto!) per via di Didone o di Enea fate voi

Il nuovo mondo di Galatea

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Questo post, con altri dedicati alle biografie di personaggi antichi, fa oggi parte del libro Didone, per esempioEdizioni Ultra, che trovate in libreria e nei principali store on line. Anche in ebook: qui il link per amazon

Didone, per esempio, bravo chi la capisce. Io non ci sono mai riuscita. Ogni volta che prendo in mano l’Eneide mi piglia uno di quegli intorcoli di stomaco che solo la rabbia genera, quando non la puoi sfogare.

Ma come, dico io, benedetta figliola! Hai tutto. Ma tutto tutto, proprio tutto quello che una donna, se ha un briciolo di sale in zucca, può desiderare.

Sei bella. Non come una velinetta da strapazzo, di quelle che sono pezzi di carne buttati lì, con le poppe al vento ed una espressione stolida sulla faccia che nessun chirurgo estetico può cancellare. No, bella bella, perché hai una certa età, ma sei…

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disegno di Salvo D'Agostino

disegno di Salvo D’Agostino

Camminava sul marciapiede, in attesa dell’arrivo del treno in ritardo di venti minuti.

Il sole illuminava quasi tutto il primo binario, arrivando fino a sotto la pensilina. L’aria invernale del mattino era diventata tiepida.

Attendere l’arrivo di qualcuno è sempre una piccola emozione. Quando poi un evento imprevisto dilata l’attesa, l’emozione diventa più forte.

Lei camminava lungo il binario con un’andatura da ballerina, seguita dal suo cane nero al guinzaglio. Testa alta, fronte al sole, spalle rilassate. I piedi poggiavano in terra quel tanto che bastava per darle uno slancio in avanti. Come non volendo mischiarsi col pavimento anonimo e freddo.

Dal primo istante in cui era entrata in quella stazione e aveva preso coscienza del ritardo del treno, aveva attivato la sua piccola modalità di sopravvivenza: lo standby. Quando le emozioni rischiavano di travolgere la sua vita, di precipitarla in quegli stati di ansia in cui non aveva più voglia di trovarsi, attivava una sorta di sospensione, una momentanea archiviazione, che le permetteva di tenere sotto controllo la situazione. In quel momento i suoi pensieri erano assorbiti dal luogo in cui si trovava, dallo stato in cui era ridotto e dalle persone che abitavano provvisoriamente con lei quel marciapiede assolato.

La stazione era un monumento alla storia moderna. Un marmoreo monumento creato per l’arrivo dell’ospite più scomodo e ingombrante Roma abbia avuto negli ultimi cento anni: Adolf Hitler.

Per il suo arrivo a Roma quella che era una piccola fermata di campagna era stata trasformata in una stazione monumentale per accogliere “romanamente” il dittatore tedesco.

Ora, quel mausoleo all’Italianità, era diventato un triste luogo di passaggio, contenitore di sporcizia, detriti e umanità allo sbando.

Avvolto alla buona in una zozza coperta di lana, che le ricordò subito quelle che lei aveva portato giorni prima alla parrocchia vicino casa, c’era un giovane, magro al punto tale che si poteva immaginare vederlo svenire  da un momento all’altro.

Camminava, anzi barcollava, anche lui nella zona soleggiata del marciapiede, aprendosi un varco chimico tra le persone che al suo passaggio giravano la testa con una smorfia disgustata e si affrettavano ad allontanarsi. Aveva il viso illuminato da una smorfia di esaltazione, e teneva stretta a se la coperta da cui spuntavano solo la testa scarmigliata e i piedi sporchi infilati in due residui di scarpe da ginnastica.

La bocca si muoveva, mormorando litanie incomprensibili, e gli occhi spalancati giravano intorno cercando chissà quale presenza.

Lei ebbe l’impressione che lui vedesse intorno a se un mondo altro, qualcosa che nessuno dei presenti poteva percepire. Lo seguì con lo sguardo mentre andava a sedersi in terra, in fondo al binario, e iniziava a dialogare con qualcosa d’invisibile che avrebbe potuto essere anche il raggio di sole che aveva di fronte. Un monologo mistico all’aria calda del mattino.

Provò un certo imbarazzo, come stesse sbirciando dalla serratura di una camera. Come se la sacralità di quel mormorare, di quel dialogo innaturale, non dovesse essere profanato da chi non poteva vedere.

Si girò e iniziò a percorrere il binario nel verso contrario, con il cane al suo fianco.

La banchina era molto lunga, proseguiva molto oltre la pensilina che costeggiava la stazione. Andava avanti, affiancando il primo binario, inoltrandosi in una sorta di zona di campagna. Uno sterrato pieno di arbusti e casupole al cui lato i binari si sdoppiavano e allargavano in un delta che portava i treni oltre la città nelle più svariate direzioni.

Il marciapiede diventava più stretto e pieno di immondizie. Lei iniziò a notare resti di cibo e grovigli di coperte, residui giacigli notturni delle anime perse che abitavano lo scalo. Il cane percepiva odori forti, lo capiva da come strattonava il guinzaglio cercando di lanciarsi dietro le sue tracce olfattive. Vide escrementi umani dietro le siepi ridotte a sterpaglia.

Si pentì di essere arrivata fino a quel punto. Sentiva di essere al confine della comoda civiltà urbana. Nell’atrio della disperazione umana.

E mentre decideva di girarsi per tornare indietro sentì il rumore metallico di un treno che arrivava alle sue spalle. L’inconfondibile, pesante rumore di un lungo treno merci che passava lentamente sul primo binario, frenando, fino a fermarsi accanto a lei.

Improvvisamente si sentì trascinata indietro nel tempo. Percepì con chiarezza l’ambivalenza di quei vagoni chiusi da pesanti maniglioni di ferro.

Proprio in quei giorni si rievocavano al Ghetto e in Sinagoga gli strazi cui erano stati assoggettati gli ebrei romani, e in quel momento lei percepì con chiarezza quello che era stato in quel luogo, in un altro tempo, un momento di quello strazio.

Ora, diritta accanto a quel treno merci, con il cane nero al suo fianco, come una sorta di Kapò, si sentì invadere dalla vergogna, da uno strano senso di nausea voyeuristica, che le impose di girarsi e con passo velocissimo tornare al centro della stazione, superando quelle oscene carrozze di legno e ferro e sangue.

Bastò poco. Ritrovarsi sotto gli altoparlanti che mandavano ossessivamente lo spot di un gestore telefonico. L’odore di caffè che arrivava dalla porta aperta del bar. Le voci concitate con cui una comitiva di turisti si affrettava verso il sottopassaggio. Tutto questo la riportò in un istante nel momento presente, nel suo stato di attesa del treno e del suo passeggero. Dallo standby alla concreta emozione dell’attesa del suo incontro.

(Nella stesura di questo post ho avuto l’ausilio di un editor d’eccezione, di cui (al momento) non sono autorizzata a rivelare l’identità. Spero di non aver tradito il suo lavoro)

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