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Archivio mensile:luglio 2012

“Qualche volta il destino assomiglia a una tempesta di sabbia che muta incessantemente la direzione del percorso. Per evitarlo cambi l’andatura. E il vento cambia andatura, per seguirti meglio. Tu allora cambi di nuovo, e subito di nuovo il vento cambia per adattarsi al tuo passo. Questo si ripete infinite volte, come una danza sinistra col dio della morte prima dell’alba. Perché quel vento non è qualcosa che è arrivato da lontano, indipendente da te. E’ qualcosa che hai dentro. Quel vento sei tu. Perciò l’unica cosa che puoi fare è entrarci, in quel vento, camminando dritto, e chiudendo forte gli occhi per non far entrare la sabbia. Attraversarlo, un passo dopo l’altro. Non troverai sole né luna, nessuna direzione, e forse nemmeno il tempo. Soltanto una sabbia bianca, finissima, come fosse fatta di ossa polverizzate, che danza in alto nel cielo. (…)

Poi, quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro che sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu , uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi era entrato. (Kafka sulla spiaggia – Murakami Haruki)

La solitudine alle volte è necessaria. Chi, come me ha sempre qualcuno intorno e zero privacy, deve cercarla, perseguirla ed apprezzarla.

Io amo la solitudine. Da quando sono bambina ho la necessità  di crearmi delle occasioni, dei piccoli spazi tutti per me.

Se si vede un uomo viaggiare da solo, o fermo davanti al mare che guarda l’orizzonte, o che legge un libro in un parco, si pensa: che fico!

Se si vede una donna sola normalmente si ritiene che sia una sfigata.

Se poi l’uomo è un bell’uomo la considerazione aumenta e si immagina che sia solo proprio per concedersi un attimo di respiro da tutte le innumerevoli donne che certamente non gli danno tregua. Se invece è una donna bella che sceglie la solitudine tutti si chiedono: ma come mai una donna così è sola. Avrà sicuramente qualche problema o un orribile difetto che non le permette di avere qualcuno accanto.

La scelta di una donna di passare del tempo da sola è un ripiego, nel pensiero comune.

Passare una giornata al mare. Visitare una chiesa su una collina (con altre donne che ti guardano con la coda dell’occhio mentre entri e poi riesci e non ti fermi ad ascoltare la messa). Viaggiare tra paesi di una regione mai visitata scattando foto a ciò che più ti colpisce. O anche rimanere in silenzio davanti ad un tramonto con una valle colma di nuvole e la luna che cresce.

Quasi sempre si pensa che questi momenti debbano essere divisi con qualcuno per diventare eterni.

A volte no. A volte è un regalo tutto per se. E’ necessario prendersi un tempo di solitudine, apprezzarlo, e viverlo fino in fondo. Godere del silenzio che si crea dentro. E pensare, pensare, pensare. Sentire se stessi ed amarsi per quello che si è e che si sta vivendo.

Il piccoletto con il padre, la – ormai – ventunenne a Edimburgo, ed io finalmente sola.

Una strana euforia, come all’inizio di una nuova avventura. Niente spesa da fare. Niente pranzi e cene  da inventare. Cose da sistemare, lavatrici da fare. Un poco di spaesamento. Troppo tempo per me. Mi gira la testa. Con tutto quello che ho in mente di fare alla fine non farò nulla.

Parto. Salendo in macchina controllo di avere la musica giusta, che il viaggio mi mette allegria.

Musica da ascoltare a tutto volume. L’autostrada scorre come i miei pensieri. Tante immagini dal passato, ma il cuore proiettato verso il futuro.

Poco importa se all’improvviso arriva il mega temporale atteso da giorni da tutta l’Italia. Lo supero. Poco dopo Napoli mi accodo ad un carro funebre. E’ solo. Non ci sono altre auto dietro a seguire il feretro. Niente fiori intorno alla bara. Stiamo passando sulla Costiera Amalfitana. Uno strano contrasto. Questa bara sola che va verso chissà dove, il mare sotto di noi e la musica a tutto volume.

Spengo lo stereo. Rallento. Seguo per un po’ questo funerale anonimo. Voglio fargli compagnia. Che vita ha avuto una persona che da morto viaggia così da solo? E per un tratto viaggiamo incolonnati. Poi le curve finiscono, il limite di velocità aumenta e l’autista, stanco del nostro incedere da funerale, spinge sull’acceleratore e mi semina. Vabbè. Buon viaggio anche a te.

Andiamo avanti con l’ABC che ogni donna dovrebbe avere presente quando incautamente si accompagna ad un AA (Analfabeta Affettivo).

Sfogliando un piccolo manuale scritto da Concetta Trinidad.

“N – NUDO

Ammettetelo: quando il vostro AA è nudo ogni forma di raziocinio smette di esistere in voi. Così con i suoi occhi, anche se siete ancora col cappotto, lui vi fa nude immaginando il vostro desiderio. Piacente vi balza addosso con quei modi esatti della passione. Abbacinate dai suoi baci, dalle sue braccia, dal suo bacino siete impossibilitate a pensare. Eppure gli avete appena fatto una domanda esatta.: “Ma noi stiamo insieme?” e lui vi ha ignorate completamente, a meno che, ovvio, non consideriate il contorcervi alacremente uno “stare insieme”.

P – PARTICOLARE

No, care externe ottimiste, l’AA non è un uomo molto particolare, non ha nulla di misterioso, di originale o di imprevedibile. Non ha un’intelligenza particolare, non ha una sensibilità particolare, non ha una concezione di coppia particolare, non ha uno stile di vita particolare. L’AA, quello vero, quello che continua a stupirvi con le sue attenzioni a corrente alternata, è solo particolarmente incapace di costruire legami significativi, è particolarmente abile nel prendersi gioco della vostra voglia di Amore, è particolarmente portato nella difficile arte di far cadere ogni vostra difesa ed è particolarmente dotato di una retorica raffinata per cui voi avrete generalmente torto e lui generalmente ragione. L’AA non è un uomo particolare, spesso ha molto poco di uomo e niente di particolare.

V – VITA DIFFICILE

Pensare che gli scriteriati comportamenti del vostro AA siano da attribuire a una vita difficile è generoso. Madre distratta? Padre violento? sorella ingrata? Nonna assente? Zia intrattabile? Cugino geloso? Cognato egoista? Chi tra questi avrà cambiato la sua indole di individuo affettuoso e rassicurante? La vostra generosità non dovrebbe farvi dimenticare che ormai il vostro AA ha trenta, quaranta, cinquanta, sessant’anni e quindi dovrebbe assumersi qualche responsabilità. E che se anche lui ha avuto una vita difficile, ora, per colpa sua, è la vostra che è diventata una vita impossibile.”

Conclusioni.

Non esiste che una soluzione: scappare a gambe levate.

Togliersi dalla testa che si può dire o fare qualcosa per farlo cambiare. la sindrome della crocerossina o del “io ti salverò” vi porterebbe alla follia.

Dimenticare che gli amplessi con il vostro AA sono stati forse i migliori degli ultimi anni e battersela.

Lasciare il campo senza discussioni, eviterete di incartarvi in elucubrazioni interminabili dove, come detto, lui avrà sempre ragione e voi sempre torto.

Resa incondizionata senza onore delle armi e avrete salva la vita.

E siccome l’AA non lascia mai nessuna ed odia essere mollato preparatevi alle rappresaglie più ostinate. Ingoiate sensi di colpa, che sicuramente vi procurerà, ingiurie, sotto varie forme – da quelle verbali a quelle epistolari. Resistete il tempo necessario a smarcarvi dai pochi momenti belli che nella vostra memoria torneranno a loop, e andate avanti cercando di non farvi riagganciare da un altro individuo della medesima specie.

Esistono anche uomini meravigliosi.

Rimanendo in tema di donne che corrono coi lupi (o almeno che tentano di imparare a correre) ho trovato un manualetto che immaginavo molto divertente.

Niente di psicologico o profondo o legato alle antiche arti femminili della forza interiore. Un libretto, con la prefazione di Syusy Blady scritto da Concetta Trinidad “Manuale per incaute frequentatrici di AA (Analfabeti Affettivi)”.

Dico immaginavo perché poi sfogliandolo l’ho trovato banalotto, tranne qualche piccolo spunto.

Occorre precisare chi è un Analfabeta Affettivo? Temo di no. Credo che quasi ogni donna se ne sia trovata uno davanti. Anche se normalmente è un certo tipo di donna che deve fare i conti con gli analfabeti. Sì perché, come precisa l’autrice nella postfazione facendo un’analogia con l’emisfero celeste tra lo Zenit e il Nadir, una relazione amorosa è sempre composta di due parti. E quindi è chiaro che se un analfabeta si lega a noi (o meglio noi ci leghiamo a lui) è perché siamo una degna controparte.

E per questo bisogna imparare a correre con i lupi.

E per questo bisogna insistere a parlare di quello che le donne sanno ma non fanno (ma questo lo affronterò un altro giorno, ho lavorato tutta la giornata ed è troppo tardi)

Per oggi ecco solo alcuni degli spunti della Trinidad (in ordine alfabetico).

C – Come sarebbe a dire?

In un tipico sabato autunnale in cui vi sete fatte in quattro tra casa, lavoro, cane da portar fuori, amiche dormienti – o senza relazioni – da sfamare, e ve ne siete infischiate della vostra leve influenza che pian piano assumeva proporzioni gigantesche, chiamate il vostro AA di fiducia luccicanti e gaie. Nonostante il tempo nel vostro petto è primavera. domandate a che ora potete andare a citofonare da lui, salire in macchina – lesti – per la mostra, il teatro, quel viaggetto low cost a Venezia, o quel lungo pomeriggio alle terme che vi aveva promesso quattro settimane prima. Dal telefonino con cui lo chiamate una coltre di silenzio vi atrofizza il timpano, poi AA con voce roca da lama tibetano che non parla da giorni vi domanda: Come sarebbe a dire? Incominciate a sentire improvvisamente tutto il freddo dell’autunno.

E – Elizabeth

La scena finale del film Elizabeth vede la bianchissima regina che si incammina verso il trono, dire al cancelliere in un inglese impeccabile:” Lord Henry, sono spossata …. all’Inghilterra”. Molti uomini avevano infatti tentato, fra tradimenti, vanità sensuali e trame, non solo di deporla ma addirittura di ucciderla. Di  qui, la drastica (e un po’ monastica) scelta di una regale solitudine. Certo non si può dire che l’AA, con i suoi tira e molla voglia assassinarvi – voi che vorreste essere soltanto la sua Regina – ma è pur vero che vi tiene in ostaggio quando non risponde al telefono, accampa scuse per non venire al cinema, non vi presenta alla famiglia. abdicate! Questo regno di Inconsistenza non fa per voi.

F – False sparizioni

Il vero autentico AA sembra talvolta sparire dalla vostra vita in modo definitivo. Voi tormentate le vostre amiche lamentandovi che non lo vedrete mai più, e le vostre amiche si augurano che per una volta abbiate ragione. ebbene, state sbagliando, voi e le vostre incaute amiche. Quando finalmente vi sarete rassegnate all’idea di non vederlo più, e anzi avrete cominciato a sperimentare tutti i meravigliosi effetti positivi della sua scomparsa, e le vostre amiche si culleranno nell’illusione di sentirvi parlare di qualcos’altro che non sia AA, lui si ripresenterà come se niente fosse.

Famiglia (dell’AA)

Che si tratti di genitori, sorelle e fratelli, zii e cugini di primo o secondo grado, nonni, figli naturali o adottivi, l’AA sarà capace di imprese impossibili (e di scuse memorabili) pur di non farveli incontrare mai.

J – Jessica

Non cercate di comprendere e giustificare la totale incapacità che AA mostra nell’impegnarsi in legami stabili e duraturi ricorrendo a una presunta sindrome dell’abbandono. Non pensate che l’AA fugga dalle Relazioni con la R maiuscola perché quando era al liceo è stato lasciato dall’ineludibile fidanzatina jessica e dopo quel trauma non è più riuscito a fidarsi del genere femminile: più semplicemente l’AA non ha nessuna intenzione di “fare sul serio” con voi.

(domani andremo avanti con il resto dell’alfabeto)

dall’oroscopo di questa settimana

“Nello stato del Maine una legge vieta di scendere da un aereo in volo. Sembra un divieto ragionevole finché non ci si rende conto di come sia discriminante per i paracadutisti. Nel campo del diritto esempi simili non mancano. La legge tende a essere troppo netta, formulata nello stesso modo per tutti. E sono sicuro che nei tuoi viaggi, Leone, hai scoperto che queste formule reprimono sempre le individualità. Nelle prossime settimane guardati in modo particolare da qualsiasi pressione a uniformarti a standard troppo ampi e a generalizzazioni assolute. Se necessario, ribellati. Sii te stesso all’ennesima potenza.”

Ora.

Non vorrei dare troppa importanza a questo Signore, che tra l’altro a volte scrive delle cose a me incomprensibili. Ma sulla questione ribellione e essere se stessi mi trova in piena concordia astrale.

Viaggiare sto viaggiando. La personalità repressa ce l’ho avuta…..

Ieri un uomo che ha diviso del vino con me bevendo dallo stesso bicchiere mi ha detto: bevo i tuoi pensieri.

Ecco, trovare un metodo di trasmissione del pensiero tramite vino mi sembra un’ottima modalità di comunicazione.

Questa mattina scendendo dalla collina e arrivando al mare ho avuto una stranissima sensazione.

Pochi giorni di permanenza in un piccolo paese, con poche persone, dove non prende il telefono (mai), dove non mi riesco a collegarmi ad internet (tranne usando uno dei pochi computer ufficiali  – modelli anni 90). Dove all’orizzonte si vede solo verde, di varie gradazioni, e un triangolo di mare nella V tra due colline. Dove l’età media dei residenti è sui sessanta e il pomerigio sotto la finestra dell’ufficio da cui lavoro quattro vecchietti (tutti i giorni, alla stessa ora, per diverse ore) si accaniscono su una partita a briscola.

Dopo pochi giorni di tutto ciò, scendendo dalla collina per la stretta strada tutta curve e niente parapetto e arrivando sulla costiera, ho avvertito uno strano senso di fastidio.  Uno straniamento baronale. Cosa è tutta questa gente che in macchina cerca una scesa a mare. Dove vanno tutti questi villeggianti al caldo affannandosi a fare shopping , a bere drink e aperitivi. Tutti abbronzati e sudati.  Tutti insieme, vicinivicini.

Sono arrivata ad Acciaroli, che orgogliosamente si definisce “il paese di Hemingway”. Pare che lui negli anni cinquanta abbia soggiornato qui diverse volte. Passo nel centro storico che è rimasto carino anche se è un po’ restaurato-finto-antico-da-turista e un po’ sgarrupato-non-ci-bastano-i-soldi-per-gestirlo-sto-paese. Intorno il solito inferno di villaggi e condomini vacanzieri. Nel centro ogni tanto si trovano delle citazioni da “Il vecchio e il mare”.

Se Ernst fosse qui oggi si sparerebbe direttamente e il Vecchio lo manderebbe nel centro commerciale che hanno realizzato sul porto.

Controllo i messaggi sul cellulare, rispondo a qualcuno. Riprendo un minimo di contatto con il mondo e poi torno su, nella mia Baronia.

Questa è una lotta impari, e i bambini hanno paura.

Per aiutarli a cercare dentro di se la forza per affrontare la malattia e la paura insegnano loro le arti marziali. E’ una iniziativa che va diffusa.

“Quando un bambino si ammala di tumore, tutta la sua famiglia viene travolta con lui dalla malattia: dolore, sofferenza, speranza ed illusione travolgono, come un uragano la vita dei piccoli, dei loro genitori e dei loro fratelli.

Offrire a tutti, genitori, figli e fratelli, ogni possibile strumento di sostegno è quasi doveroso.

E’ quello che fa Kids Kicking Cancer Italia Onlus, un’associazione italiana no profit che, attraverso l’insegnamento delle arti marziali, offre ai bambini affetti da cancro e da gravi patologie croniche un aiuto, per affrontare e gestire meglio la propria quotidianità: la missione di Kids Kicking Cancer Italia Onlus è quella di alleviare il dolore dei bambini ammalati, dando loro la forza di reagire alla malattia fisicamente, spiritualmente ed emotivamente.

Grazie anche al sostegno di Pfizer, il progetto è attivo all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma: fino ad oggi, hanno preso parte al progetto 15 bambini e ragazzi del reparto di onco-ematologia.

Mark Palermo, medico neurologo e psichiatra, responsabile di Kids Kicking Cancer Onlus Italia, ci ha spiegato qualcosa di più sull’attività dell’associazione.

Mark, in che modo le arti marziali possono aiutare i bambini affetti da tumore e altre gravi patologie?

Le arti marziali aiutano i bambini sulla base di una serie di elementi. Alcuni sono insiti nella pratica stessa come, ad esempio, il non mettere l’accento sull’emotività’, sulla fatica o sul risultato, ma soprattutto sulla pratica in sé. La pratica, che é motoria e non verbale per definizione, aiuta il praticante, a qualsiasi età, a svincolarsi dai pensieri ponendo l’attenzione sul corpo e sul respiro, portando ad uno stato di maggiore calma. Nel caso specifico di bambini malati di tumore, a questo aspetto di “meditazione in movimento”, se ne aggiunge uno di normalizzazione. Nell’ambito di una situazione critica quale è quella della malattia, un bambino è ancor più vulnerabile agli aspetti alienanti del ricovero e delle visite mediche perché non ha maturato, per motivi assolutamente fisiologici, le competenze emotive e cognitive per comprendere cosa gli accade. Lui o lei sanno solo ciò che vivono: l’allontanamento dalla scuola, dalle abitudini, dai compagni, dalle proprie cose. Praticare un’arte marziale, anche con i limiti imposti loro dalla spossatezza, rappresenta nel loro immaginario, concetti di forza e di coraggio e diventa un momento entusiasmante e di normalità.

Come hai cominciato ad occuparsi di questa attività?

Ho iniziato ad occuparmi di questa attività sulla scia di oramai dieci anni di esperienze cliniche in cui, come neurologo e psichiatra, prescrivo ed utilizzo le arti marziali come terapia nell’ambito neuropsichiatrico sia del bambino che dell’adulto. L’efficacia della pratica, da un punto di vista clinico, è dovuta sia al complesso stimolo psicomotorio delle arti marziali che ad una serie di aspetti metaforici e etici. Questi ultimi, più evidenti all’adulto, entrano a far parte in modo spontaneo nel piccolo praticante proprio grazie all’uso del corpo, che in giovane età è il veicolo comunicativo principale. Quando ho conosciuto Kids Kicking Cancer nella persona di Rabbi G e dei suoi eroi, oltre ad essermi irrimediabilmente commosso, mi sono immediatamente offerto di coordinare il progetto italiano.

Ha una storia positiva di un bambino che segue le vostre lezioni da raccontarci?

Ogni storia varrebbe la pena di essere raccontata ed ascoltata perché è dalle storie che impariamo, soprattutto nel mio mestiere. E devo dire che sono tutte positive. Devo anche dire che la storia di questi bambini è anche la storia dei loro genitori. Tra tutti mi viene in mente D., un piccolino di 6 anni con un tumore al nervo ottico. Un bambino bellissimo, simpatico, spumeggiante ed arrabbiato. Ed è proprio sulla sua rabbia che si lavora, attraverso il corpo. La rabbia del suo non vedere bene, la rabbia del perdere i suoi foltissimi capelli, la rabbia di dover portare un piccolo tubicino nel torace per ricevere le terapie. Fughiamo la rabbia, forse anche la mia, colpendo l’aria e inchinandoci l’uno verso l’altro. E quando dopo aver percosso con i suoi piccoli pugni un morbido colpitore con l’energia vitale che lo caratterizza, alla fine si ferma, stanco. Mi guarda sorridendo e dice: “visto quanto sono forte!?”.”

(fonte Donna Moderna)

Lei era finalmente serena. Non aveva più ansie o momenti di depressione. Niente scoppi di pianto improvvisi. La notte l’insonnia non la tormentava più. Dopo tutto quel tempo – troppo, ora si diceva – passato a tormentarsi, aveva lasciato alle spalle per sempre la relazione che  l’aveva fatta arrivare in paradiso e sprofondare all’inferno a momenti alterni (più i secondi che i primi, ragionava ora).

Aveva fatto una vacanza, aveva perso un po di peso e si era comprata dei vestiti nuovi. Aveva cambiato nuance ai capelli, anzi aveva aggiunto un tocco di biondo che con l’abbronzatura ci stava bene. Ora si stava preparando a partire per un nuovo lavoro di cui era molto contenta, sarebbe stata fuori un altro mese. Questa estate l’aveva passata quasi sempre in giro, per un motivo o l’altro, e questo le aveva fatto sicuramente bene. Niente routine. Niente luoghi conosciuti. Facce nuove.

Quando –  si, c’è un quando – presa da una  insana voglia di andare a sbirciare sulla pagina facebook del suo ex, rimase senza parole.

Lei purtroppo non aveva perso questa abitudine. Aveva eliminato tutte le sue mail, tutti i messaggi dal cellulare, foto su entrambi (in effetti le aveva archiviate in una apposita cartella che non apriva mai) e addirittura cancellato il suo numero di telefono dalla rubrica. Ma non resisteva all’impulso di sbirciare di tanto in tanto sulla sua pagina facebook. Le piaceva vedere le immagini che lui postava  e gli eventuali piccoli commenti. Quelli che LUI voleva che lei vedesse, perché tanto lo sapeva che lei sbirciava. E d’altra parte non era forse anche per sue le immagini  che si era innamorata? Non aveva idolatrato ogni foto come fosse il vincitore del World Press Photo? Ma erano sempre immagini neutre, di oggetti o luoghi o situazioni.

Ora era lì senza parole di fronte ad una foto che lo ritraeva. E’ vero che non si vedeva molto. Era una immagine di lui di profilo, mentre lavorava. In pratica si vedeva di lui solo l’avambraccio che teneva la sua telecamera. Lei sorrise, inebetita, e automaticamente il suo dito scattò, come un tempo, per clikkare su “mi piace”. Fortunatamente si bloccò. Il cervello le era evaporato, lo stomaco era sceso all’altezza dell’utero che aveva preso il posto del cervello. Quel braccio aveva sfondato il muro che si era meticolosamente costruita. Ma non si sentiva ripresa dall’innamoramento o desiderosa di riprendere i contatti o cose autodistruttive del genere. No. Era ipnotizzata dalla bellezza del suo avambraccio. Sensazioni olfattive e tattili legate a quei muscoli, a quel colore di pelle, alla morbidezza dei suoi peli biondi, la travolgevano.

Chiuse immediatamente la pagina, facebook e computer.

Cercò di distrarsi, di pensare ad altro.

Macchè, l’immagine era lì con tutte le sensazioni sovradescritte allegate.

Cercò di focalizzare il pensiero su cose negative. Sui suoi occhi gelidi mentre la trattava male. Il solletico dei peli  quando le abbracciava le spalle irrompeva prepotente. Si concentrava sulle sue labbra strette mentre la insultava. La solidità del suo muscolo estensore era come presente sotto le sue dita.

Passarono due giorni, poi tre, e non resistendo tornò su facebook a vedere la foto. Ora era ossessionata da tutti i particolari. Il punto esatto in cui arrivava la maglietta (poco sopra il gomito) il grado di abbronzatura della pelle, il modo in cui fletteva le dita.

No non andava bene, non andava bene per niente. Doveva assolutamente trovare qualcosa per strapparsi quell’avambraccio dalla testa.

Inizio a fissare tutti gli avambracci degli uomini che incontrava per strada. Ne incontrerò sicuramente uno più bello, pensò, e sarò salva di nuovo.

Ma uno era troppo magro. Un altro aveva le vene troppo in evidenza. Ne vide uno che sembrava quasi corrispondere. Ma no, aveva i peli neri. Pochi, lisci, ma neri. Si rese conto che era più facile individuare il tipo di avambraccio il più vicino possibile alla sua esigenza, puntando sugli stranieri. Specialmente sul tipo nordico, o germanico. Ne vide da lontano uno che le fece battere il cuore. Ma avvicinandosi si accorse che aveva l’orologio. Un altro sembrava superlativo, ma aveva un tatuaggio proprio vicino al polso.

Niente. Il tempo scorreva, e la sua ossessione stava diventando una malattia. Era tornata in città dopo il viaggio di lavoro, che aveva passato come in trance. Stava perdendo l’appetito, Aveva di nuovo lunghe notti insonni che la stremavano. Cerchi scuri si allungavano sotto i suoi occhi e la pelle, persa ormai l’abbronzatura, stava diventando grigia.

Quando – si, c’è di nuovo un quando – ebbe un’intuizione. Conosceva una truccatrice che si occupava anche di effetti speciali. Viveva al nord e le mandò un’email spiegando cosa voleva da lei. La ragazza le rispose che non era in grado di farlo ma che aveva un amico scenografo con le mani d’oro che sapeva veramente creare qualunque cosa. Lei le mandò la foto e un bonifico di acconto.

Dopo venti giorni le arrivò a casa un grande pacco. Tremò un poco nell’aprirlo.

Dentro, riprodotto al naturale – in resina dipinta a mano – c’era il suo Avambraccio.

Lo guardò fremendo. Era perfetto! Stessa dimensione, stesso colore di pelle, stessa tensione dell’estensore. Solo le dita della mano, chiusa a pugno, erano un po’ più fini e lunghe. Ma d’altronde nella foto che aveva inviato non si vedevano bene. E i peli erano dipinti. Dipinti benissimo, osservò, ma dipinti. Lo scenografo le aveva scritto che metterne di veri sarebbe stato molto più laborioso e costoso. Si era accontentata e il risultato era comunque superiore alle sue aspettative.

Inizialmente mise l’Avambraccio sulla libreria in salotto, spostando i testi classici su una mensola nell’ingresso.

Dopo qualche giorno però lo portò in camera. Aveva intenzione di metterlo davanti al letto, nel ripiano dove prima aveva la televisione. Ma anche lì restò poco.

Una sera, presa da un folle pensiero, se lo mise accanto, nel letto. Appoggiato al cuscino, con l’attacco un poco sotto il lenzuolo. Lo guardò a lungo e sospirò. Sì, finalmente era una donna felice.

Questa galleria contiene 13 immagini.

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