Lei era finalmente serena. Non aveva più ansie o momenti di depressione. Niente scoppi di pianto improvvisi. La notte l’insonnia non la tormentava più. Dopo tutto quel tempo – troppo, ora si diceva – passato a tormentarsi, aveva lasciato alle spalle per sempre la relazione che l’aveva fatta arrivare in paradiso e sprofondare all’inferno a momenti alterni (più i secondi che i primi, ragionava ora).
Aveva fatto una vacanza, aveva perso un po di peso e si era comprata dei vestiti nuovi. Aveva cambiato nuance ai capelli, anzi aveva aggiunto un tocco di biondo che con l’abbronzatura ci stava bene. Ora si stava preparando a partire per un nuovo lavoro di cui era molto contenta, sarebbe stata fuori un altro mese. Questa estate l’aveva passata quasi sempre in giro, per un motivo o l’altro, e questo le aveva fatto sicuramente bene. Niente routine. Niente luoghi conosciuti. Facce nuove.
Quando – si, c’è un quando – presa da una insana voglia di andare a sbirciare sulla pagina facebook del suo ex, rimase senza parole.
Lei purtroppo non aveva perso questa abitudine. Aveva eliminato tutte le sue mail, tutti i messaggi dal cellulare, foto su entrambi (in effetti le aveva archiviate in una apposita cartella che non apriva mai) e addirittura cancellato il suo numero di telefono dalla rubrica. Ma non resisteva all’impulso di sbirciare di tanto in tanto sulla sua pagina facebook. Le piaceva vedere le immagini che lui postava e gli eventuali piccoli commenti. Quelli che LUI voleva che lei vedesse, perché tanto lo sapeva che lei sbirciava. E d’altra parte non era forse anche per sue le immagini che si era innamorata? Non aveva idolatrato ogni foto come fosse il vincitore del World Press Photo? Ma erano sempre immagini neutre, di oggetti o luoghi o situazioni.
Ora era lì senza parole di fronte ad una foto che lo ritraeva. E’ vero che non si vedeva molto. Era una immagine di lui di profilo, mentre lavorava. In pratica si vedeva di lui solo l’avambraccio che teneva la sua telecamera. Lei sorrise, inebetita, e automaticamente il suo dito scattò, come un tempo, per clikkare su “mi piace”. Fortunatamente si bloccò. Il cervello le era evaporato, lo stomaco era sceso all’altezza dell’utero che aveva preso il posto del cervello. Quel braccio aveva sfondato il muro che si era meticolosamente costruita. Ma non si sentiva ripresa dall’innamoramento o desiderosa di riprendere i contatti o cose autodistruttive del genere. No. Era ipnotizzata dalla bellezza del suo avambraccio. Sensazioni olfattive e tattili legate a quei muscoli, a quel colore di pelle, alla morbidezza dei suoi peli biondi, la travolgevano.
Chiuse immediatamente la pagina, facebook e computer.
Cercò di distrarsi, di pensare ad altro.
Macchè, l’immagine era lì con tutte le sensazioni sovradescritte allegate.
Cercò di focalizzare il pensiero su cose negative. Sui suoi occhi gelidi mentre la trattava male. Il solletico dei peli quando le abbracciava le spalle irrompeva prepotente. Si concentrava sulle sue labbra strette mentre la insultava. La solidità del suo muscolo estensore era come presente sotto le sue dita.
Passarono due giorni, poi tre, e non resistendo tornò su facebook a vedere la foto. Ora era ossessionata da tutti i particolari. Il punto esatto in cui arrivava la maglietta (poco sopra il gomito) il grado di abbronzatura della pelle, il modo in cui fletteva le dita.
No non andava bene, non andava bene per niente. Doveva assolutamente trovare qualcosa per strapparsi quell’avambraccio dalla testa.
Inizio a fissare tutti gli avambracci degli uomini che incontrava per strada. Ne incontrerò sicuramente uno più bello, pensò, e sarò salva di nuovo.
Ma uno era troppo magro. Un altro aveva le vene troppo in evidenza. Ne vide uno che sembrava quasi corrispondere. Ma no, aveva i peli neri. Pochi, lisci, ma neri. Si rese conto che era più facile individuare il tipo di avambraccio il più vicino possibile alla sua esigenza, puntando sugli stranieri. Specialmente sul tipo nordico, o germanico. Ne vide da lontano uno che le fece battere il cuore. Ma avvicinandosi si accorse che aveva l’orologio. Un altro sembrava superlativo, ma aveva un tatuaggio proprio vicino al polso.
Niente. Il tempo scorreva, e la sua ossessione stava diventando una malattia. Era tornata in città dopo il viaggio di lavoro, che aveva passato come in trance. Stava perdendo l’appetito, Aveva di nuovo lunghe notti insonni che la stremavano. Cerchi scuri si allungavano sotto i suoi occhi e la pelle, persa ormai l’abbronzatura, stava diventando grigia.
Quando – si, c’è di nuovo un quando – ebbe un’intuizione. Conosceva una truccatrice che si occupava anche di effetti speciali. Viveva al nord e le mandò un’email spiegando cosa voleva da lei. La ragazza le rispose che non era in grado di farlo ma che aveva un amico scenografo con le mani d’oro che sapeva veramente creare qualunque cosa. Lei le mandò la foto e un bonifico di acconto.
Dopo venti giorni le arrivò a casa un grande pacco. Tremò un poco nell’aprirlo.
Dentro, riprodotto al naturale – in resina dipinta a mano – c’era il suo Avambraccio.
Lo guardò fremendo. Era perfetto! Stessa dimensione, stesso colore di pelle, stessa tensione dell’estensore. Solo le dita della mano, chiusa a pugno, erano un po’ più fini e lunghe. Ma d’altronde nella foto che aveva inviato non si vedevano bene. E i peli erano dipinti. Dipinti benissimo, osservò, ma dipinti. Lo scenografo le aveva scritto che metterne di veri sarebbe stato molto più laborioso e costoso. Si era accontentata e il risultato era comunque superiore alle sue aspettative.
Inizialmente mise l’Avambraccio sulla libreria in salotto, spostando i testi classici su una mensola nell’ingresso.
Dopo qualche giorno però lo portò in camera. Aveva intenzione di metterlo davanti al letto, nel ripiano dove prima aveva la televisione. Ma anche lì restò poco.
Una sera, presa da un folle pensiero, se lo mise accanto, nel letto. Appoggiato al cuscino, con l’attacco un poco sotto il lenzuolo. Lo guardò a lungo e sospirò. Sì, finalmente era una donna felice.