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tu

che ricordi hai?

ricordi quel giorno, il primo in cui ci siamo incontrati. sulla strada. un abbraccio. occhi negli occhi. ed è stato amore

immediato

ricordi le carezze, gli abbracci, le coccole

le voci tenere a rincorrersi

il cibo preparato per te

e le notti passate vicino vicino.

le carezze, tante.

il calore

tanto

come ti senti?

temi che io possa tradirti, abbandonarti

vivi il presente o il passato ti torna addosso lacerandoti il cuore

alle volte ti osservo mentre sogni

ti muovi come se corressi

piangi a volte

e io vorrei essere con te nel tuo sogno a correre lungo il mare o in mezzo ad un prato verde e immenso

tu forse se felice perché vivi ora e qui

ti basta vedermi

ti basta sentire il mio corpo contro il tuo

niente di quando eri sola

niente di quando ti hanno deluso, tradito, abbandonato.

vorrei essere te,

a volte.

IMG_1739

 

P1010441Sulla riva c’era una bottiglia d plastica. Niente di strano. Sulla spiaggia di questa stagione si trovano tante di quelle immondizie portate dal mare. O semplicemente lasciate da quella immondizia umana che non riesce a non infangare tutto il bello che incontra.

Una bottiglia come tante, dicevo. Solo che passandoci accanto ho visto che qualcosa si muoveva nell’acqua al suo interno. Inizialmente sembrava che fossero le alghette che  insieme ad un poco di sabbia si muovevano al rotolare della bottiglia mossa dall’onda. Ma avvicinandomi meglio e prendendola in mano mi sono accorta che erano proprio dei minuscoli animaletti. Dei piccolissimi gamberetti erano dentro la bottiglia! Mi ha colto uno stupore indicibile, come avessi scoperto il brodo primordiale dal quale tutti noi discendiamo.

Gamberetti piccolissimi ma perfetti, che nuotavano agitando le zampette e le antenne. Uno spettacolo  incredibile! Un microcosmo che probabilmente si era installato nella bottiglia quando questa era nel mare e lì si era sviluppato e cresciuto anche quando la bottiglia era stata portata a riva dalle onde. Un piccolo mondo completamente autosufficiente (almeno fino a quel momento) ed ignaro di essere uno sputo di mare nella plastica. Un piccolo mondo che tenevo in mano e osservavo come fossi il padreterno che osserva il nostro universo con tutti noi che ci agitiamo inconsapevoli della nostra ridicola finitezza.

Subito mi è tornato in mente il racconto di Dr. Seuss Ortone e il mondo dei Chi. ortone

Ortone è un elefante con una grande immaginazione e sensibilità che sente un giorno un grido d’aiuto provenire da un minuscolo granello di polvere che fluttua nell’aria. Poiché è un bestione generoso e disponibile, specie verso i più piccoli, non ci pensa un attimo a spostare la sua ingombrante mole fino a raggiungere lo strano granello. Scoprirà che su quel puntino, adagiato su un trifoglio in fiore, vive la Città di Chi non So, abitata dai microscopici Chi. Al primo cittadino, il Sinda-Chi, angosciato dai terremoti che scuotono il suo paese, Ortone promette che metterà in salvo il granello, cioè il mondo dei Chi. Per fare questo il generoso elefantone si mette contro la sua comunità che lo crede completamente pazzo, mentre altrettanto succede al Sinda-Chi nel suo piccolo mondo dove nessuno crede che sia in contatto con un essere enorme che controlla e sostiene il loro mondo. Alla fine, ovviamente, i due mondi riescono ad entrare in contatto, e Ortone riesce a salvare i Chi dalla distruzione.

Allo stesso modo io ho aperto la bottiglia e l’ho gettata in mare, riunendo il piccolo microcosmo al mondo dal quale era venuto.

Cosa voglio dire con tutta sta storia?

Che alle volte basta poco per rendersi conto che la nostra vita, il mondo che conosciamo, il nostro intero universo è sospeso ad un filo. Che ogni cosa potrebbe finire da un momento all’altro. Che ci sentiamo il centro dell’universo mentre siamo solo un insignificante piccolo granellino di polvere, mentre forse degli enormi occhioni elefanteschi ci osservano con apprensione.ganesha

Magari gli induisti avevano ragione ad adorare il Dio Ganesha.

 E magari con un poco di attenzione e di sensibilità si potrebbe evitare di insudiciare il mondo, ed in senso più immateriale di insudiciare le nostre vite. In entrambe le situazioni basta avere un poco più di rispetto. rispetto per gli altri, ovviamente, ma fondamentalmente per se e per la propria vita, che rispetto al tutto è niente.

La bambina e il cane camminavano sulla spiaggia.

Camminavano con calma, senza affrettarsi. Ma senza soste, senza distrarsi a guardare il mare. La bambina guardava avanti a se, come se invece del golfo avesse di fronte l’infinito. Il cane la seguiva, come sempre, con il suo passo un po’ claudicante di vecchio, la lingua di fuori a catturare l’umido dell’aria. Ma la coda, allegra, si muoveva da destra a sinistra come la pendola di un orologio.

In Paese erano abituati a vederli sempre insieme. La bambina con i suoi vestitini corti, sempre gli stessi. Uno con i fiori rosa e l’altro a farfalline colorate. Erano carini, di cotone, ma a buon mercato. Con i colori un po’ stinti per i tanti lavaggi. Ma lei era così bella, con i suoi capelli castani con la frangettina sui grandi occhi, il corpo esile e abbronzato, che qualunque  cosa indossasse sembrava comunque una piccola principessa. Una principessa scalza, perché ai piedi, sempre un po’ neri, aveva delle ciabattine di gomma, mai sandali o scarpe.

Il cane, un meticcio, un incrocio di chissà quante razze, era alto con una grande testa e orecchie lunghe. Il pelo un tempo doveva essere stato biondo. Ora era rado in molti punti, in altri macchiato di grigio, al punto che sembrava fosse malato. Era anziano e si capiva dalle zampe posteriori, sempre un po piegate come non riuscissero più a sostenere il peso del suo grande corpo. Era comunque alto. Quando camminavano affiancati la bambina poteva poggiare il braccio sul suo dorso.

Un grande cane e una piccola bambina.

Il giorno a volte li vedevi separati. La bambina a disegnare sui tavolini del bar del Paese, il cane sdraiato in qualche angolo ombreggiato a risparmiare le energie per il grande caldo. Ma appena lei si alzava, per andare a cercare un altro svago, o qualcuno con cui parlare, lui subito alzava il testone e con gli occhi la seguiva.  Verso sera, quando il grande caldo finiva e arrivava il vento fresco da sopra la collina, li vedevi iniziare a giocare. Sempre lo stesso gioco. Lei scappava e lui dietro. Poi lei di colpo deviava e si girava e lui impazzito cercava di acchiapparle il vestito con i denti. Lei strillava. Degli strilli acuti, divertiti. Si faceva quasi prendere e poi di nuovo via a correre con lui dietro, improvvisamente pieno di energia. Andavano avanti così per mezz’ora, poi qualcuno infastidito dai latrati e dagli strilli gli diceva bruscamente di smetterla. Loro subito si fermavano ansimanti, e a occhi bassi se ne andavano in qualche altro angolo del paese, lei avanti e lui leggermente indietro, a toccarle la mano con il muso.

Ora camminavano sulla spiaggia. Lontani chilometri dal Paese, lontani forse per sempre da tutto il brutto che avevano visto. (segue)

Ci sono due famiglie sulla spiaggia libera.

Una italiana. Padre, madre, zia, il pargolo. Tutti abbastanza giovani. Per la media. Diciamo sotto i quaranta.

Hanno ombrello, seggioline, almeno quattro teli stesi, tre o quattro borsoni pieni di giochini, gonfiabili, cibo portato da casa in contenitori, creme, costumi di ricambio. Altri asciugamani. Si sono trascinati dietro un passeggino che sembra un Suv colmo di altre cose. La mamma e la zia sono molto attive. Giocano con il pargolo gli fanno fare il bagnetto. Gli fanno mangiare un gelato che finisce tutto su un bavaglino largo abbastanza da essere un altro telo da mare. Spesso si spostano per parlare al cellulare, che prende e non prende. Il papà legge il giornale. Ogni tanto si alza per giocare col pupo.

Alla fine della giornata mamma e zia ristipano  tutto nei borsoni e come formichine ammonticchiano tutti i  borsoni sul passeggino Suv e, non senza fatica, se lo trascinano dietro verso la fine della spiaggia dove inizia la strada – e dove finalmente le ruote hanno un senso – portandosi appresso il ragazzino.

Il papà le segue. Forse lui ha chiuso e riposto l’ombrellone.

L’altra famiglia è straniera. Credo tedesca. Li ho notati poco perché si agitano poco. Anche loro sui trentacinque hanno due bambini. Uno sui tre anni, l’altro piccolissimo. Non hanno un ombrellone e hanno steso solo un enorme pareo di cotone, grande quanto un lenzuolo. Hanno una grande borsa dove tengono tutto. Niente passeggino, qualche gioco. Niente gonfiabili. Mi accorgo di loro quando vedo il papà in ginocchio sul lenzuolone mettere il pannolino all’infante più piccolo.

A fine giornata insieme risistemano tutto nel borsone e il papà prende i due figli in braccio e il borsone sulla spalla e cammina verso la strada. La mamma lo segue piegando il pareo.

fine

Come sempre la giornata è stata impegnata in cose di lavoro. Ma poi ad un certo punto, fortunata, ho potuto staccare tutto e dire: ora andiamo a farci un bagno. E così sono scesa dalla collina baronale verso il mare.

Bellissimo!

Il sole già calante rendeva tutto magico.

Con la mia compagna di bagno siamo scese su una spiaggia di sassoni. Nel senso di grandi massi di pietra, non riferita a popolazioni germaniche.

L’operazione di avvicinamento alle acque è stato complicato, ma persone previdenti ed evidentemente frequentatrici abituali di detta spiaggia, avevano attrezzato una scesa a mare fatta con sacconi di sabbia a formare una gradinata fin dentro il mare. Fico!

Bel bagno, grande nuotata, energia ritrovata. Tornando a stendermi al sole (tipo fachiro sui sassi, sotto la testa la borsa del mare, spremendo inconsapevolmente mezzo flacone di crema nella borsa – ma questo l’ho scoperto solo al ritorno) ho notato poco distante da me una strana figura addormentata sotto un asciugamano.

Si vedeva solo una gamba, con un pantalone da tuta e un sandalo di plastica al piede. Dico “al” perché si vedeva solo una gamba ed un solo piede.

La prima stranezza è stata che l’altro sandalo, quello del piede che non si vedeva, era appoggiato poco distante. Dopo di che ho notato che la parte coperta dall’asciugamano, ed in parte dalla borsa, era molto più corta di quello che si immagina sia un corpo adulto. Almeno in relazione alla lunghezza della gamba visibile.

Ho avuto la sensazione di qualcosa di mancante, di proporzioni non rispettate, insomma non capivo bene come cavolo era messo sto corpo che dormiva sotto l’asciugamano.

La cosa mi inquietava un po’. Ho iniziato a pensare ad un corpo mozzato. Ad un cadavere, insomma, di un essere umano tagliato a metà.

Sciocca! Ho pensato.

Però poi mi sono rituffata e nuotando mi sono avvicinata per cercare di capire.

Niente, le cose non mi tornavano.

Uscendo mi sono sdraiata di nuovo e, senza farmi notare troppo, ho cercato di capire se nel frattempo il corpo si fosse mosso. Macchè! Sempre nella stessa posizione.

Dopo un po’ ho iniziato a camminare, meglio dire barcollare, sui sassoni, per dare sfogo alla mia mania fotografica.  Come si evince anche dalla foto sul mio blog sono attirata dai sassoni. Quelli li ho fotografati due anni fa durante la mia vacanza Thelma e Louise in Sicilia. (e se Louise mi sta leggendo si ricorderà certamente che siamo ripartite con circa cento chili di sassi in macchina).

Dicevo quindi che fotografando sassoni mi sono avvicinata alla figura dormiente. Non troppo per non essere indiscreta, ma abbastanza per notare qualcosa che fino a quel momento mi era sfuggita. La gamba sembrava vera, ma il piede poteva decisamente essere artificiale.

Dunque. poteva trattarsi di un arto artificiale lasciato sotto l’asciugamano insieme alla borsa. Tanto più che come dicevo l’altro sandalo era stato lasciato poco distante.

Ora. Sulla spiaggetta di sassoni eravamo, ovviamente, in pochi. Vuoi per l’ora, vuoi per la scomodità. Le uniche sul bagnasciuga eravamo io e la mia compagna di bagno. In mare c’erano un gruppo di ragazzi che nuotavano come delfini e si lanciavano sulle onde della secca (quindi probabilmente avevano entrambi gli arti inferiori), ed una coppia. Lui spalle larghe ed un po’ corpulento, lei molto graziosa, corpo magro e slanciato.

Mi sono distratta per un po’. Uscendo dal cono d’ombra il mio telefono aveva cominciato a funzionare e ho risposto alle  di chiamate e messaggi di due giorni.

Ad un certo punto ho rialzato gli occhi e l’ho visto. Il ragazzo con le spalle larghe ed un po’ corpulento che usciva dall’acqua con un movimento a granchio, all’indietro, strisciando sui sassi. Con una gamba amputata fino a sopra il ginocchio.

A quel punto ero divisa tra il sollievo di non dover scoprire la metà di un corpo assassinato e smembrato, e  lo stupore assoluto per la scelta coraggiosa di affrontare  una spiaggia di sassoni con solo una gamba.

Ovviamente il comune senso del pudore mi ha impedito di fissarmi sulla coppia e di vedere quindi come avrebbe risalito la riva (ripida ) di massi e come avrebbe rimesso l’arto artificiale.

Ma ho sentito una enorme, istintiva ed immediata simpatia per quella coppia che non si faceva fermare da alcun problema per passare un bel momento insieme al mare.

Il piccoletto con il padre, la – ormai – ventunenne a Edimburgo, ed io finalmente sola.

Una strana euforia, come all’inizio di una nuova avventura. Niente spesa da fare. Niente pranzi e cene  da inventare. Cose da sistemare, lavatrici da fare. Un poco di spaesamento. Troppo tempo per me. Mi gira la testa. Con tutto quello che ho in mente di fare alla fine non farò nulla.

Parto. Salendo in macchina controllo di avere la musica giusta, che il viaggio mi mette allegria.

Musica da ascoltare a tutto volume. L’autostrada scorre come i miei pensieri. Tante immagini dal passato, ma il cuore proiettato verso il futuro.

Poco importa se all’improvviso arriva il mega temporale atteso da giorni da tutta l’Italia. Lo supero. Poco dopo Napoli mi accodo ad un carro funebre. E’ solo. Non ci sono altre auto dietro a seguire il feretro. Niente fiori intorno alla bara. Stiamo passando sulla Costiera Amalfitana. Uno strano contrasto. Questa bara sola che va verso chissà dove, il mare sotto di noi e la musica a tutto volume.

Spengo lo stereo. Rallento. Seguo per un po’ questo funerale anonimo. Voglio fargli compagnia. Che vita ha avuto una persona che da morto viaggia così da solo? E per un tratto viaggiamo incolonnati. Poi le curve finiscono, il limite di velocità aumenta e l’autista, stanco del nostro incedere da funerale, spinge sull’acceleratore e mi semina. Vabbè. Buon viaggio anche a te.

Il mare prende, il mare da.

Ogni anno il primo bagno a mare è un’emozione. Come è un’emozione il primo tuffo  fatto insieme ad una persona amata.

Io ho seguito un amore in apnea nei fondali delle isole Eolie, e poi l’ho perso nell’ultima immersione nei mari di Sardegna.

Ho visto le cernie giganti sulla barriera corallina australiana, e spiato uno squalo addormentato  in una caverna sottomarina alle Maldive.

Il mare prende, il mare da.

Ieri un’onda anomala sulla costa toscana ha fatto ritirare il mare di diversi metri, provocando poi grandi ondate e forte risacca. Tre persone in pericolo di vita nello stesso momento sulla stessa spiaggia. Una donna è morta.

Il mare prende, il mare da.

Solo pochi anni fa, nello stesso specchio di mare, ero in barca a vela con alcuni amici. Tre uomini e tre donne. Il comandante e sua moglie, imbarcata suo malgrado, con tendenze al mal di mare doveva rimanere assolutamente sopra coperta in navigazione. Una coppia di napoletani, giovani, carini, di famiglia bene. Lei sembrava la Guzzanti nell’imitazione della napoletana bene. Poi io e il mio amico.

Avevamo dormito ormeggiati al Giglio e la mattina presto partimmo per l’ultima navigazione verso Gaeta, dove saremmo sbarcati.

Il cielo era coperto, ma il mare calmo e il vento poco. Dopo circa un’ora di navigazione il comandate si girò e ci urlò all’improvviso: ammainate le vele! tutto giù, tutto giù!. Neanche detto e ci arrivò addosso una bufera di vento e pioggia in orizzontale. Io e le altre due donne, inabili totalmente alle manovre, fummo mandate sotto coperta a chiudere tutto il chiudibile. I tre uomini sopra coperta tentavano di tirare giù le vele senza finire a mare, cosa non facile. Mai avevo visto una tempesta di vento così veloce e repentina. Gocce di pioggia ghiacciata arrivavato in orizzontale, tale era la forza del vento. Nel giro di pochissimo eravamo nel mezzo di una tempesta. Ma non una tempesta tanto per dire. Una tempesta vera, con mare forza 8 e vento non so più a quanti nodi.

Fortuna fu che i ragazzi riuscirono a calare le vele (il napoletano finì quasi a mare tra gli urli della ragazza sotto coperta) altrimenti avremmo immediatamente scuffiato. Ma nonostante questo la barca inizò a inclinarsi come mai avrei pensato potesse inclinarsi una barca (e tornare poi diritta).

Io ero sdraiata in cuccetta con le gambe e le braccia contro le pareti  per non rotolare a terra. Dall’oblò vedevo passare l’albero fino quasi a toccare la superficie del mare e ogni volta temevo non si rialzasse più. Ad un certo punto mi gridarono di passare a tutti i giubbotti di salvataggio e le incerate per gli uomini in coperta. Se prima avevo cercato di mantenere una certa calma da lì mi si scatenò il panico. Anche perché nel tirare la testa fuori coperta vidi delle onde grandi come mai avevo visto nella mia vita. Molto, ma molto, più alte di noi. Ad ogni onda, la barca sembrava affondare, e poi miracolosamente risorgeva e cominciava a risalire. Tutta inclinata ma testarda. Mi ributtai in cuccetta.

Ad un certo punto, incredibile a dirsi, ebbi un bisogno urgentissimo ed improrogabile di fare pipì. Arrivai barcollando del piccolo bagno e riuscendo anche a non vomitare feci quello che dovevo e tornai a puntellarmi in cuccetta. La tempesta durò un’eternità, forse un’ora. Durante la quale fui sicura di morire. Maledissi il momento in cui mi ero lasciata tentare dalla vacanza marina. Mi maledii per aver lasciato i miei figli orfani. Urlai, mentalmente, contro il cielo che non ci aveva avvisato dell’imminente tempesta e altrettanto feci contro il bollettino dei naviganti. Dalla radio arrivavano voci da barche che come noi erano in balia del mare. Alcune anche più in difficoltà. Una coppia di conoscenti, marito e moglie con due bambini piccoli a bordo mandarono l’SOS. Ad un certo punto, iniziai a pregare. Come faccio io, che sono buddista.

Come il cielo volle la tempesta finì. Me ne resi conto perché un piccolo raggio di luce entrò di traverso da un oblò. Il cielo si stava aprendo.

A quel punto salii in coperta. Il mare era sempre terribile e le onde altissime, ma la barca non si inclinava più di 180 gradi. Le affrontava testa alta e le scavalcava ad una ad una. Innalzai il comandante,  che aveva tenuto il timone per tutto il tempo, nonostante tutto, a mio eroe personale perenne.

Arrivammo al porto di Nettuno con il mare quasi calmo.

Una volta ormeggiati scendemmo sulla banchina e seduti per terra rimanemmo in silenzio a fissare il mare per un tempo lunghissimo. Tutti quelli che entravano in porto, ho notato, si comportavano così. In silenzio tutti guardavamo il mare, maledetto fino a poco prima, ringraziandolo per averci permesso di tornare.

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