essere Eva Kant

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avevo dodici anni ed ero già completamente infelice.

appartenevo a quella che allora si chiamava famiglia della media borghesia, prima che questo concetto venisse spazzato via dai movimenti degli anni seguenti.

frequentavo una scuola privata esclusivamente femminile gestita da suore francesi.

non era tra le più esclusive della città, ma la retta annuale faceva una certa scrematura. anche se era sempre più frequentata dai figli dei nuovi ricchi. non famiglie di professionisti o antichi proprietari terrieri, ma commercianti, bottegai, che negli anni subito dopo la guerra avevano saputo cavalcare l’onda del grande boom economico.

la mia, di famiglia, era già una macchia nera.

divorziati.

i miei genitori appartenevano a quella che allora era una minoranza sociale e avevano costretto anche me a farne parte. nella mia scuola supercattolica, che io sapessi, ero stata la prima. in un primo momento la vicenda mi aveva dato un’aura di gloria, attenzioni particolari da parte delle maestre e una certa elasticità nelle richieste di risultati scolastici. ma d’altro canto io ero una bambina molto educata, ligia, e apparentemente così matura e serena da non avere quasi bisogno di queste attenzioni.

la situazione a dodici anni si era già normalizzata. c’erano stati sicuramente altri divorzi. una bambina era rimasta orfana di padre, e questo mi aveva fatto slittatare in una categoria meno protetta.

il vero problema era un altro. odiavo me stessa. odiavo soprattutto il mio corpo grassoccio e informe. le mie compagne erano divise tra le belle bambine (la maggior parte) e le brutte. io ero considerata bella.

ma come si fa, dico io, a considerare bella una bambina così. alta ero alta, è vero. avevo troppa carne addosso. ero pesante, sgraziata. con le caviglie grosse e le guance ridondanti. avevo ancora i capelli tutti pari, lunghissimi. scuri, folti, pesanti. la mia compagna di banco, e migliore amica, Emilia Elena aveva un taglio molto moderno, tutto scalato, con una frangetta di lato. ed era di un bel castano chiaro dorato. d’altra parte lei già aveva indossato calze color carne sotto la gonna scozzese della divisa e le avevano comprato un paio di decoltè con una zeppa di para che la facevano diventare alta quasi quanto me. io ero appena riuscita ad evitare i calzettoni e ad indossare una calzamaglia, rigorosamente spessa, bianca o blu. questo non aiutava le mie gambe pesanti a sembrare più snelle. tantomeno lo facevano i mocassini con il tacco spianato.

ma più di tutte, quelle che invidiavo, erano le cugine Sabelli. in verità non si chiamavano entrambe così, essendo figlie di due sorelle. però entrambe vivevano nella tenuta di famiglia e da lì prendevano il nome. erano piccoline per la loro età, bassine ma estremamente proporzionate. una era quasi un modello barbie. biondo platino, occhi azzurri, nasino piccino. l’altra era  il suo clone ma in versione scura. capelli castani, lentiggini, occhi verdissimi.

erano belle, di una bellezza raffinata e delicata, ma inappellabile. qualunque vestito a loro stava bene. anche se indossavano calzamaglie pesanti, mocassini e gonna scozzese come me, erano deliziose. quando venivano in tuta per le ore di ginnastica erano due atlete in miniatura. erano agili. mentre io arrancavo sul quadro svedese e rimanevo appesa piangendo come un salame alla scala orizzontale, loro salivano, scendevano, volteggiavano, come se la gravità non le sfiorasse.

sapevo che nella loro Tenuta condividevano con i cugini una casa su un albero. che andavano a cavallo. d’inverno spesso sparivano per una settimana tornando tutte abbronzate dopo essere state a sciare sulle Dolomiti. io avevo visto solo una volta la neve, quell’inverno sulla via dei laghi, ad un curvone su uno sterrato. aveva appena fatto un poco di neve e lì, al contrario dell’asfalto, non si era sciolta. io e mia sorella eravamo scese dalla macchina di corsa infilando le mani nella farina bianca e subito eravamo rimaste molto deluse. era fredda e molto bagnata.

le cugine Sabelli non prendevano mai voti eccellenti, ma andavano bene in tutte le materie. sembrava che le loro famiglie non pretendessero la media del dieci, come succedeva a casa mia. erano soddisfatti così. non le obbligavano a leggere continuamente vecchi romanzi per ragazzi arrivati direttamente dai primi del novecento. un giorno le gemelle portarono in classe un libro che fece scalpore: Fantozzi. La signorina Pericoli, l’insegnante di italiano, glielo fece leggere a turno ad alta voce. non pensavo avrei mai potuto ridere così tanto per un libro. i miei testi erano pieni di bambini orfani, malaticci, che sacrificavano la loro vita per la patria o per portare un po’ di pane in famiglia.

un giorno, per il compleanno di una delle due cugine – non ricordo quale – fummo tutte invitate ad una festa nella Tenuta. l’ingresso era un altissimo cancello di legno, che si apriva su un lungo  muro di pietra. era al confine tra la città e i nuovi quartieri. un territorio vergine, ettari di terreno scampati alla nuova urbanizzazione. probabilmente la stessa famiglia Sabelli, proprietari terrieri, aveva costruito e cementificato tutto intorno. ma avevano conservato il loro piccolo paradiso: prati e boschi e colline a loro esclusivo uso. nella Tenuta viveva tutta la famiglia. diverse case attorno ad un’aia, con accanto le stalle dei cavalli e le abitazioni dei contadini. le gemelle ogni giorno sparivano lì dentro, vivendo quella che io immaginavo la loro vita da favola con una famiglia felice ad affiatata, ricca ed accogliente.

la festa era stata preparata all’aperto, non ricordo più quanto giocammo o se mangiammo panini preparati in casa o tramezzini comprati al bar come succedeva a casa mia, quello che ricordo fu il momento del film. i genitori avevano organizzato la proiezione di un film in una delle costruzioni basse riservate ai giochi dei ragazzi. già avere un proiettore grande, come quello dei cinema, con la pellicola nelle grandi pizze e uno schermo che copriva tutta la parete di fondo era una cosa straordinaria. mio padre aveva il suo super8 e lo schermino con il gancio a molla che ogni tanto cedeva e si arrotolava improvvisamente schiacciandoti le dita.

ma la cosa veramente straordinaria, che mi lasciò senza parole e cambiò per sempre il concetto che avevo di cosa era la vera felicità, fu che il film era stato girato da loro. da tutta la famiglia Sabelli, indendo. non un filmino di qualche ricorrenza o le riprese della gita in montagna. no! un vero film con sceneggiatura, montaggio, titoli e musiche. a colori.

era un film di Diabolik. girato dai genitori delle Sabelli e dagli altri cugini. non ricordo chi fosse il protagonista, probabilmente uno dei cugini più grandi, e nemmeno chi interpretasse l’ispettore  Ginko.

ricordo bene però chi fosse Eva Kant: entrambe le cugine. la bionda era Eva nella versione naturale, quando era con Diabolik a casa a preparare il colpo, quando studiava il modo di aiutarlo a liberarsi dall’ispettore che lo tampinava. poi con un abile gioco di dissolvenza e assolvenza Eva metteva una maschera e si trasformava nella cugina mora. erano straordinarie. bellissime e fiere nella loro parte. agili ed eleganti, negli inseguimenti, scavalcavano muri, si arrampicavano sui rami di un albero per entrare da una finestra. nei primi piani gli occhi azzurri e dolci della bionda Eva si trasformavano in quelli verdi ghiaccio della sua clone.

era un film perfetto, avevano ricreato ambienti e costumi, incluse le maschere nere. avevano seguito il  racconto di uno dei fumetti delle sorelle Giussani. erano riusciti a girare anche uno spettacolare inseguimento in auto con la mitica jaguard nera inseguita dalla giulietta verde dell’ispettore lungo gli sterrati delle cave vicino alla città. Quelle che avevano ospitato le riprese di tanti spaghetti western.

a fine proiezione ero sopraffatta dall’ammirazione e dall’invidia. non avrei mai potuto eguagliare le cugine. mai sarei stata coinvolta in un’operazione così geniale e divertente.

mai avrei potuto essere io Eva Kant.

23 commenti
    • elinepal ha detto:

      ti ringrazio

  1. rodixidor ha detto:

    Condivido le tue considerazioni. Probabilmente il ricordo è ingigantito dalla prospettiva infantile ma sicuramente il confronto è impareggiabile.

    • elinepal ha detto:

      è una storia…. c’è sempre un modello che non raggiungeremo mai

  2. Topper ha detto:

    Ammiriamo e invidiamo ciò che riteniamo sia migliore di noi e di quello che circonda il nostro mondo quotidiano. A volte però il nostro giudizio è falsato da stereotipi imposti da altri, dalla società, dal tempo, dal contesto in cui viviamo. Da un film del quale impariamo ad amare i personaggi, spesso identificandoli negli attori che li interpretano, senza in realtà sapere nulla di loro. Il nostro è il miglior ruolo che possiamo curare. Non come attori, perché non recitiamo, ma come sceneggiatori o registi perché la storia siamo noi a scriverla.

    • elinepal ha detto:

      E’ tutto vero ciò che scrivi. la mia è una storia sui dolori dell’infanzia / adolescenza. quei momenti così difficili da affrontare e superare che, molto spesso, influenza poi tutta la nostra vita di adulti. è un tema sul quale sto riflettendo e sul quale cercherò di scrivere ancora. un abbraccio

    • Topper ha detto:

      Sarà un piacere leggerti, peccato che non scrivi più spesso. Non sei mai scontata né banale.
      Un abbraccio.

  3. Sono ammaliata da questo racconto. Un ambiente a me alieno. Come capisco quel senso di inadeguatezza…

    • elinepal ha detto:

      grazie, è veramente bello ricevere un commento così positivo da te.

    • Grazie a te di scritto questo post

  4. Racconto veramente bello Eli! Potrebbe essere l’inzio di un romanzo di formazione

    • elinepal ha detto:

      grazie!

  5. tuttotace ha detto:

    Che bel post. Davvero Eli, molto. Il senso di inadeguatezza che descrivi è palpabile e l’ho conosciuto per un breve periodo, poi sono stata fortunata e anche aiutata da una famiglia che mi ha tolto da un contesto chiuso e fatto aprire bene gli occhi sul mondo, mettendo mattoni fondamentali per la mia autostima. So per certo che da più grande io sia stata per qualcuno una cugina Sabelli, lo so perchè raccontato da adulte, faccia a faccia. La cosa mi ha fatto sorridere perchè per me, gli anni in cui sono stata invidiata, sono stati in assoluto i più cupi di tutti. Magari non è davvero tutto oro quello che luccica.

    • elinepal ha detto:

      E’ certamente così. Se dovessi scrivere il resto della storia le vorrei incornare da grandi, le cugine Sabelli….

  6. Bellissimo!!! Ma chissà che ne è stato delle perfette cugine Sabelli? Non potranno essere rimaste inalterate come la vera Eva Kant…

  7. Racconto davvero bellissimo!
    Di cugine Sabelli è pieno il mondo, ed il mondo gira; io sono stata una cugina Sabelli molto probabilmente per alcune persone durante le scuole elementari e forse anche medie, poi però il mio senso di inadeguatezza si è accresciuto sempre di più diventando mostruoso durante il quarto anno delle superiori in cui tutti quelli che mi circondavano sembravano essere più belli bravi e più tutto di me.
    Comunque ovvio che l’erba del vicino sia sempre più verde.
    Ma poi immagina che noia dover ripetere le riprese se venivano male e poi dover montare tutto!

  8. Un bel post, gradevole piacevole da leggere. Sembra quasi un ricordo del passato, ripulito dal filtro del tempo, dove la voce narrante descrive con semplicità le sensazioni di una ragazza dodicenne (allora erano considerate ancora bambine, adesso ragazze. Come sono mutati i tempi) ai primi approcci con il mondo degli adulti.
    Complimenti.

  9. Beh, io ho sempre voluto essere Indiana Jones, e con il passare degli anni mi sono pure convinto di assomigliare a Errison Ford… 😉

  10. Quello racconti ha il sapore di un passato lontano. La lontananza toglie valore a qualunque avanguardia ci fosse, resta un ricordo, sarebbe bello sorriderne. Oggi è tutto cenere davvero. Le giostre permettono una piccola soddisfazione, non rancore non vendetta, solo un giro di giostra.

  11. Una scrittura incisiva ed elegante. (Non c’entra niente, ma c’è un Giveaway sul mio blog)

  12. lilasmile ha detto:

    Molto bello questo tuo scritto, mi fa conoscere alcune cose in più di te e penso che quel senso di inadeguatezza lo provino tante persone nel momento dell’adolescenza (anche io l’ho provato). Poi si cresce e arriva il momento di stimare se stessi e tutto quello che si è fatto per vivere e ci si guarda indietro in modo diverso (almeno questo è ciò che è successo a me).
    Un sorriso. Lila

    • elinepal ha detto:

      ma grazie!

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