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216px-Jain_hand.svgQuesto post si potrebbe anche intitolare: eli e le donne, o anche eli e i tradimenti, o meglio eli e gli uomini che non la scelgono mai.

Io ho un bel rapporto con le altre donne. Ritengo che siano una fonte per me di ispirazione continua. Difficilmente mi sento invidiosa o in gara con un’altra donna. Non è escluso che conosca donne che mi stanno sulle palle, o che discuta o litighi con una donna, o che proprio la pensi in maniera differente. Figuriamoci! La sorellanza è roba da anni settanta. Però, negli anni, ho imparato ad ascoltare le donne parlare, e a guardarle mentre parlano, e ad osservare i movimenti del corpo degli occhi delle mani. E ci vedo proprio la vita. Ci rivedo me o l’opposto di me o entrambe le cose. Ma mi sento in sintonia.

Negli anni ho imparato a rispettare anche le donne che mi hanno ferito. E qui arriva il punto.

Ho una sorta di maledizione del faraone che mi colpisce in ogni relazione amorosa. Il mio uomo vive con un’altra donna. Oppure. Non ci vive più, ma la sua ex continua ad essere fortemente presente nella sua vita. Oppure. Non ha un’altra donna, ma qualunque altra donna lo interessa.

Mi sono trovata in situazioni grottesche. O meglio.  Che definisco ora grottesche, perchè al momento credevo di sentirmi aprire la terra sotto i piedi. In realtà me lo auguravo.

Mi sono trovata, incinta di tre mesi, a leggere le missive infatuate della giovane artista al mio compagno-padre-di-mio-figlio-regista. E fin qui niente di strano. Capita. Ma la storia durava da tempo, negata, sempre. E di fronte all’evidenza non ha potuto che …. negare ovviamente. Sono finita a urlare come una lavandaia al telefono alla tipa di sparire dalla nostra vita.

Durante la stessa gravidanza, verso l’ottavo mese,  il mio amore regista  se la fece anche con  la giovane allieva, ma oramai avrete capito il tipo. Quindi nessuna meraviglia se l’anno dopo mi ritrovai in un paesino della calabria, per uno stage estivo, con TRE, dico TRE, delle sue amanti (o ex amanti) come allieve. Neanche a dirlo che ci siamo lasciati.

In un’altra relazione mi sono ritrovata nuda, accanto al mio uomo nudo e addormentato, a sentire la porta di casa che si apriva e vedere la sua ex che entrava chiamandolo prima di rimanere pietrificata come me, per poi decidere di lasciare le chiavi di casa sul comodino e uscire in silenzio. Non bastasse, al suo risveglio un attimo dopo, il bastardo si angosciò per lo stato di prostrazione in cui, sicuramente, lei si stava trovando in quel momento.

Dopo anni di un rapporto tira e molla in cui continuava a comparire l’ex nei momenti più delicati, ebbi la notizia che per motivi assolutamente pratici legati alla crisi economica, avevano deciso di ricondividere la casa e le spese. Il gergo che ho usato lo lascio alla vostra immaginazione. L’aggravante è che per tutto il tempo della relazione io ero stata vessata da una forma di gelosia patologica e accusata, assolutamente gratuitamente, dei più turpi e ripetuti tradimenti.

Infine mi sono ritrovata a gestire una relazione con un uomo che inizialmente creduto libero si rivelò invece accasato con figli. Convinta del fatto che la convivenza fosse oramai un fatto puramente formale ho atteso un tempo più che congruo, per me, per far si che si definisse la questione. Ma ciò non accadde né si vide all’orizzonte la più pallida speranza, complice ancora una volta crisi e dissesti finanziari. Ma, se non fosse bastato, il mio uomo – essendo intelligente, arguto e ironico – amava dedicare tempo ed energia al rapporto epistolare con donne di ogni razza e religione, alcune delle quali fatalmente cadevano nel deliquio amoroso. Alcune delle altre poi incontrava o cercava di incontrare. Sempre, sia detto per chiarezza, sostenendo di mantenere  l’assoluta fedeltà morale e materiale a me.

Sento già da un po’ ripetuti mormorii e borbotti. Si ma te li cerchi con il lanternino. Vabbè ma dopo che ti ha fatto questo ancora ci stavi insieme. Ma come hai accettato una situazione di compromesso e poi ti sei tirata indietro.

Ebbene, coloro che mormorano non hanno letto il titolo del post, o non sono buddisti, o comunque non sanno cosa significhi la parola karma.

Karma è una parola che deriva dal sanscrito e letteralmente, significa “azione”.

“Indica il funzionamento universale di un principio di causalità simile a quello di cui parla la scienza, secondo cui ogni cosa nell’universo esiste all’interno di uno schema di causa ed effetto: “per ogni azione, c’è una reazione uguale e contraria”. La differenza tra la causalità delle scienze naturali e il principio buddista del karma è che quest’ultimo non si limita alle cose che possono essere viste o misurate: esso si riferisce anche gli aspetti invisibili o spirituali della vita, alle sensazioni o alle esperienze di felicità o miseria, gentilezza o crudeltà.”

“Secondo il Buddismo, noi creiamo il karma su tre livelli: attraverso i pensieri, le parole e le azioni. Le azioni, ovviamente, hanno un impatto maggiore delle parole. Allo stesso modo, quando diamo voce alle nostre idee, ciò crea un karma più pesante rispetto al solo pensarle. Tuttavia, poiché sia le parole sia le azioni hanno origine nei pensieri, anche il contenuto di ciò che sentiamo e pensiamo è di cruciale importanza.”

“Il karma quindi, come ogni cosa, è in costante divenire: creiamo il nostro presente e il nostro futuro attraverso le scelte che facciamo in ogni momento. Sotto questa luce, l’insegnamento del karma non incoraggia alla rassegnazione, ma restituisce il potere di diventare protagonisti nello svolgimento della propria vita. “(dal sito dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai)

La questione quindi attiene decisamente a me. Al mio rapporto, evidentemente, malato con il genere maschile. Froidianamente direi al mio rapporto, assolutamente, malato con mio padre.

Ma torniamo invece al mio rapporto con le donne. In tutto questo, direte – già vi sento, come puoi amare tanto il genere femminile. Dal momento che squinzie bionde seducevano il tuo uomo. Che altre donnine più mature non mollavano di un centimetro il territorio. Che infine per un verso o per l’altro sei stata comunque defenestrata?

Facile: perchè non era propriamente responsabilità loro. Agivano, è vero – a volte, in modo subdolo. Ma i miei meravigliosi uomini avrebbero potuto neutralizzarle in modo immediato, efficace e definitivo. Manifestare in maniera chiara e totale che una sola e unica donna faceva parte della loro vita: IO.  Invece no. Perchè io amo gli uomini che non rinunciano mai….. alle altre.

In quanto alle ex, ora attuali e conviventi , o definitivamente ex dei miei ex, quasi sempre ci divento amica. Chi accompagno nelle visite al centro per i disturbi alimentari (si perchè se le scelgono anche anoressiche) Chi diventa interlocutrice e riferimento nella gestione del piccoletto nei giorni di spettanza del padre. A chi, incontrandola per l’ennesima volta nell’ennesima imbarazzante situazione, lui vagava cieco come un Edipo, do’ la mano sorridendo e dico: Oramai presentiamoci, io sono Eli.

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Uno dei primi insegnamenti buddisti che ho ricevuto è stato il principio dei dieci mondi. E’ stato uno di quelli che mi ha aperto la strada ad un nuovo approccio alla vita. Quello che mi ha aiutato a comprendere la vera natura della vita. Non basta mai ripassare i principi fondamentali della filosofia buddista. E nei momenti di difficoltà ripartire dai principi base è vitale.
I dieci mondi e il loro mutuo possesso
a cura di Maria Lucia De Luca
I dieci mondi sono la classificazione degli stati esistenziali che l’individuo sperimenta istante per istante. Nell’insegnamento del Sutra del Loto vengono definiti come stati vitali compresenti a livello potenziale e manifesto

La teoria buddista dei dieci mondi e del loro mutuo possesso è un’analisi dei diversi stati esistenziali sperimentati da ogni singola vita nel corso del tempo. I dieci mondi sono: Inferno, Avidità (o Fame), Animalità, Collera, Umanità, Cielo (o Estasi), Apprendimento (o Studio), Illuminazione parziale (o Realizzazione), Bodhisattva e Buddità. Nessuna di queste condizioni interiori è fissa e immutabile, nel senso che ogni vita le contiene tutte e dieci a livello potenziale e istante per istante ne esprime una a livello manifesto.

L’idea dei dieci mondi ha origine da una teoria cosmologica propria del Brahmanesimo che sosteneva che vi fossero dieci regni distinti e separati nei quali le persone rinascevano in base alla natura del karma accumulato. Ad esempio il mondo di Umanità denotava l’insieme degli esseri umani, il mondo di Animalità gli animali, il mondo di Cielo gli dèi, il mondo di Inferno una prigione sotterranea… Il Buddismo, in particolare nella tradizione che si ispira al Sutra del Loto, rivoluziona questo punto di vista: i dieci mondi non sono luoghi fisici ma condizioni esistenziali coesistenti a livello potenziale e manifesto in ogni individuo. Nichiren Daishonin spiega: «Per prima cosa, alla domanda di dove si trovino l’inferno e il Budda, alcuni sutra affermano che l’inferno si trova sotto terra, altri che il Budda risiede a occidente. Ma a un attento esame, risulta che entrambi esistono nel nostro corpo alto cinque piedi; la ragione per cui penso così è che l’inferno esiste nel cuore di chi disprezza suo padre e non si cura di sua madre».1

Negli scritti di Nichiren Daishonin si fa spesso riferimento, nel trattare questo argomento, agli insegnamenti di T’ien-t’ai, studioso buddista cinese del VI secolo che Nichiren considera uno dei suoi maestri. All’inizio di uno dei suoi trattati fondamentali, Il vero oggetto di culto, il Daishonin ne riporta un’affermazione: «Ogni singola entità di vita è dotata di dieci mondi e ogni mondo contiene tutti gli altri. Si hanno così cento mondi…»2. Ciò significa che il mondo di Avidità, ad esempio, contiene il mondo di Bodhisattva, o che il mondo di Apprendimento contiene il mondo di Animalità, e che nessuna di queste condizioni vitali è positiva o negativa di per sé. Ma significa soprattutto che ogni mondo contiene il mondo di Buddità: ciascuno di noi, in qualunque istante della propria vita e qualunque emozione stia vivendo, ha il potenziale per sperimentare e manifestare la condizione vitale della Buddità. Questo concetto è il cuore del Sutra del Loto, e solo grazie alla rivelazione nel Sutra del Loto del principio del mutuo possesso dei dieci mondi possiamo parlarne come condizioni della vita umana. Se ogni mondo non fosse dotato di tutti gli altri, a seconda della condizione vitale che sperimentiamo ci troveremmo in domini separati e distinti, senza contatto o relazione gli uni con gli altri. Grazie al fatto che noi possediamo tutti i dieci mondi, possiamo percepire e cambiare il nostro stato vitale istantaneamente. E possiamo sentire e comprendere i sentimenti delle altre persone. Nel diciannovesimo capitolo del Sutra del Loto, I benefici del maestro della Legge, Shakyamuni afferma: «[…] Essi otterranno milleduecento benefici dell’orecchio con i quali purificheranno le orecchie così da poter udire tutte le varietà di parole e suoni all’interno e all’esterno delle migliaia di milioni di mondi, giù in basso fino all’inferno Avichi e su in alto fino alla Sommità dell’Essere […] voci di uomini, voci di donne […] voci di esseri celesti […] voci di asura […] il suono degli abitanti dell’inferno, voci di bestie, voci di spiriti affamati […] voci di ascoltatori della voce, voci di pratyekabuddha, voci di Bodhisattva e voci di Budda».3

All’interno dei dieci mondi sussistono diversi raggruppamenti. I primi tre mondi, Inferno, Avidità e Animalità, definiti “i tre cattivi sentieri”, sono condizioni in cui la singola vita, priva di coscienza di sé e forza di volontà, è in balia dell’angoscia impotente, del desiderio e degli istinti.
A partire dal quarto mondo, la Collera, l’io comincia ad avere consapevolezza di sé. Tuttavia i primi sei mondi – i quattro già citati più lo stato di Umanità e quello di Cielo – collettivamente vengono definiti i sei sentieri o i sei mondi inferiori perché sono comunque attivati o disattivati dalle circostanze esterne, condizionati dalla realizzazione o meno di desideri e impulsi.
Il Buddismo sottolinea che la maggior parte delle persone trascorre la propria vita andando avanti e indietro tra questi sei stati senza rendersi conto di essere del tutto alla mercé delle proprie reazioni all’ambiente esterno. «Qualunque felicità o soddisfazione possiamo ottenere in questi mondi – scrive Ikeda – è totalmente dipendente dalle circostanze ed è perciò transitoria. Quando siamo intrappolati nei sei mondi inferiori non riusciamo a capire questa verità e basiamo la nostra felicità, e addirittura la nostra stessa identità, su fattori esterni che per definizione sono al di fuori del nostro controllo. Tuttavia, quando riconosciamo che tutto quello che sperimentiamo nei sei mondi inferiori è impermanente, e siamo perciò spinti a cominciare la ricerca di una verità duratura, entriamo nei mondi successivi, il mondo di Apprendimento e quello di Illuminazione parziale».4
Questi due mondi, assieme a quelli di Bodhisattva e di Buddità, vengono complessivamente definiti i quattro mondi nobili. A differenza degli stati vitali precedenti, caratterizzati da una reazione più o meno passiva all’ambiente, in questi mondi l’io fa uno sforzo deliberato e cosciente di autonomia rispetto alle circostanze basato sul miglioramento personale e sulla ricerca della verità.
I mondi di Apprendimento e di Illuminazione parziale sono definiti “due veicoli”, e insieme al mondo di Bodhisattva vengono complessivamente chiamati i tre veicoli. «Nei quattro nobili sentieri – scrive Ikeda – si costruisce un cuore forte, si passa da un io in balia dell’ambiente a un io che influenza l’ambiente. Questa è la rivoluzione umana, e lo spirito di ricerca dei due veicoli ne costituisce le fondamenta».5
Infine gli stati da Inferno a Bodhisattva sono collettivamente chiamati i nove mondi, per denotare la condizione non illuminata dei comuni mortali influenzati dal karma, in contrapposizione con il decimo mondo, la Buddità, uno stato di perfetta e assoluta libertà dai condizionamenti del karma caratterizzato dal risveglio alla realtà dei fenomeni.

Il mutuo possesso dei dieci mondi
Il Sutra del Loto espone il mutuo possesso dei dieci mondi principalmente per rivelare che il mondo di Umanità contiene i dieci mondi e in particolare quello di Buddità. E cioè per rivelare che le persone comuni possono manifestare la propria Buddità così come sono, senza dover rinascere in un’altra forma o in un’altra terra. Anzi, «un Budda privo dei nove mondi e delle loro sofferenze – scrive Ikeda – non è un vero Budda. Potremmo dire che il mondo di Buddità si esprime nella disponibilità ad accollarsi anche le sofferenze dell’Inferno. Questo è l’Inferno contenuto nella Buddità».6
Il Daishonin spiega: «Le cause e gli effetti dei dieci mondi furono rivelati negli insegnamenti precedenti; ora, solo nel Sutra del Loto è rivelato il mutuo possesso delle cause e degli effetti di tutti i dieci mondi».7
Comprendere questa verità si dice “osservare la propria mente” (kanjin), cioè «percepire in essa i dieci mondi, dall’Inferno alla Buddità».8
Scrive Ikeda nel Mondo del Gosho: «Il vero significato di percepire i dieci mondi dentro la propria mente consiste nel manifestare il mondo di Buddità che esiste nella propria vita. Pur essendo dotati di tutti i dieci mondi, in realtà in ogni momento particolare siamo in grado di osservare solo quello che si manifesta in quell’istante. Il punto è come manifestare le condizioni vitali più alte, cioè i mondi nobili di Studio, Realizzazione, Bodhisattva e Buddità, che non sono immediatamente accessibili. E il mondo di Buddità è il più difficile da manifestare».9
E ancora: «Si parla di osservare i dieci mondi nella propria vita di persona comune ma in realtà la questione fondamentale è come riuscire a manifestare il mondo di Buddità. Il Daishonin parla di “percepire i dieci mondi” e non di “percepire il mondo di Buddità” perché anche quando quest’ultimo è manifesto, gli altri nove non scompaiono. Perciò “osservare la mente” significa sempre osservare il mutuo possesso dei dieci mondi.
Per esempio, supponiamo di trovarci in una condizione senza speranza, in cui soffriamo nel mondo d’Inferno. Se percepiamo la realtà del mutuo possesso dei dieci mondi e siamo convinti che nella nostra vita esiste senza alcun dubbio la grande forza vitale della Buddità, riusciremo a superare qualsiasi cosa e infine a vincere».10

L’Inferno
Per il Buddismo il mondo d’Inferno indica uno stato vitale debole, completamente condizionato dall’ambiente, nel quale non si ha la forza di reagire per uscirne.
Il termine Inferno deriva dalla parola sanscrita naraka, che letteralmente indica una prigione sotterranea. Il nome giapponese (jigoku) è composto da due caratteri che significano “terra” e “prigione”. Terra indica il luogo più in basso di tutti, e prigione lo stato in cui l’essere è legato e totalmente immobilizzato: la condizione spirituale di una persona a cui è stata tolta la volontà di vivere e di agire, che non ha più la forza né la speranza di cambiare le cose. L’energia vitale che alimenta i desideri, gli istinti, le passioni, è quasi del tutto annientata.
Nel Vero oggetto di culto Nichiren Daishonin scrive che «la rabbia è il mondo d’Inferno»,11 un rancore vuoto, sordo, che fa sì che si venga totalmente consumati da un senso di impotenza e frustrazione, intrappolati in emozioni che non trovano modo di esprimersi. Non riuscendo a sviluppare il coraggio di assumersi la responsabilità della propria infelicità, non si ha la forza di reagire per risolvere la situazione.
Il tempo, nel mondo d’Inferno, sembra non passare mai. Quando la forza vitale si indebolisce, il flusso vitale quasi si interrompe e lo scorrere del tempo appare lentissimo. I sutra dicono che nel mondo di Inferno la vita dura un astronomico numero di eoni. Scrive Daisaku Ikeda: «Anche se vi sono molte gradazioni del mondo d’Inferno, in generale è una condizione in cui il vivere stesso è penoso e tutto ciò che si vede serve solo a farci sentire ancor più infelici. In questo stato la forza vitale è debolissima, si approssima alla condizione di morte. Potremmo descrivere questa rabbia come il gemito della vita che ha esaurito ogni possibile risorsa».12
È questa la condizione interiore di chi pone fine volontariamente alla propria vita: quando lo spazio vitale si approssima allo zero, si può pensare che non vi sia altra alternativa che la morte.
Cosa fare con chi sperimenta una condizione esistenziale così drammatica?
«Ha bisogno – suggerisce Ikeda – di avere qualcuno vicino che ascolti ciò che ha da dire; qualcuno che gli offra anche una sola parola d’incoraggiamento. Può bastare questo per riaccendere la fiamma della vita nel cuore di chi sta agonizzando nella disperazione. Il solo sapere che c’è qualcuno a cui importa di lui o di lei produce un’espansione dello spazio vitale. Per quanto disperata appaia la situazione, se sentiamo che non siamo soli ma abbiamo un legame con gli altri e con il mondo, riusciremo sicuramente a risollevarci e a reagire».

L’Avidità o Fame 
“Fame” deriva dalla parola sanscrita preta che in origine significava “cadavere”, e col tempo il termine finì per essere usato per indicare un regno di infelicità, come l’Inferno e l’Animalità, in cui si può cadere dopo la morte. Preta significa anche “spirito ancestrale”; in India si credeva che molti spiriti degli antenati fossero affamati e avidi di cibo, per questo si cominciò a chiamare i morti “spiriti affamati”.
Il Daishonin afferma che il mondo di Fame è caratterizzato dall’avidità.14 T’ien-t’ai affermò: «Questa condizione vitale è dominata dalla fame e dalla sete; per questo vengono chiamati spiriti affamati».15 È uno stato in cui si è tormentati da una fame che niente può soddisfare.
Chi sperimenta questa condizione è schiavo dei desideri, non si gode la vita perché gli manca sempre qualcosa. Con la conseguenza di sentirsi perennemente insoddisfatto e frustrato.
Potremmo definire l’Avidità come il desiderio di riempire a tutti i costi un senso di vuoto interiore: molte delle cosiddette sindromi della mancanza, come gli attacchi di bulimia, le crisi di astinenza, la possessività e la gelosia possono ricondursi a questo stato vitale.
Rispetto al mondo d’Inferno, lo spazio vitale è leggermente più grande, anchese di poco. Non si è più in una condizione di totale schiavitù e disperazione ma si ha una ragione per cui vivere.

L’Animalità
In origine il termine (giapponese chikusho) si riferiva alla condizione propria degli animali. NelVero oggetto di culto il Daishonin scrisse che «la stupidità è il mondo di Animalità».16
Chi si trova in questo stato vive istintivamente e superficialmente, e vede solo quello che ha davanti agli occhi. Nel Gosho Lettera da Sado Nichiren afferma: «I pesci vivono nello stagno e, poiché sono attaccati alla vita, deplorando la sua scarsa profondità scavano delle buche sul fondo per nascondersi; eppure, ingannati dall’esca, abboccano all’amo. Gli uccelli vivono sugli alberi e, temendo che l’albero sia troppo basso, si appollaiano sul ramo più alto; eppure, abbagliati dall’esca, si fanno prendere nella rete».17
“Stupido” è chi non usa la propria intelligenza e la propria coscienza, prerogative dell’essere umano; chi non si chiede mai il perché delle cose, chi non si assume la responsabilità delle proprie azioni. «Mi torna in mente – scrive Daisaku Ikeda nella Proposta di pace del 2003 – l’agghiacciante esempio di Adolf Eichmann, l’ex tenente colonnello delle SS che ebbe un ruolo di primo piano negli orrori dell’olocausto. […] Sebbene responsabile di aver organizzato atrocità inaudite, Eichmann affermava di aver semplicemente fatto il suo dovere come ingranaggio della macchina nazista, di aver soltanto eseguito degli ordini».18
Il mondo di Animalità segue la legge del più forte, la logica della guerra. «È nella natura delle bestie minacciare il debole e temere il forte» affermava Nichiren.19 L’esplosione di rabbia irrefrenabile, il raptus omicida, come pure la paura paralizzante, l’attacco di panico, possono tutte essere manifestazioni del mondo di Animalità.

La Collera
A differenza degli esseri nei tre cattivi sentieri, totalmente alla mercé dell’ambiente, quelli nel mondo di Collera hanno un io che cerca di sottrarsi al dominio delle circostanze. Però quando le persone acquistano consapevolezza di sé spesso tendono a cadere preda del desiderio di superare gli altri.
“Collera” (giapponese shura) deriva dal termine sanscrito asura, che designava in origine una categoria di divinità benevole divenute in seguito demoni litigiosi incessantemente in lotta con gli dèi.
T’ien-t’ai ne fa una descrizione precisa nel Maka Shikan: «La persona nel regno di Ashura ha un irresistibile impulso a prevalere su chiunque altro. Come il falco, che vola alto nel cielo in cerca della preda, guarda in basso verso gli altri e rispetta soltanto se stesso. Mostra superficialmente una sorta di benevolenza, di rettitudine, di correttezza, di sapienza e di fede, e può anche mostrare una forma primitiva di integrità morale, ma dentro è un mostruoso Ashura».20
Nichiren dice che il mondo di Collera indica perversità.21 Caratteristiche di questo stato sono la presunzione e l’arroganza, prerogative di chi ha l’illusoria convinzione di essere migliore degli altri e usa tutta la sua energia per sostenere e promuovere questa immagine nascondendo i propri difetti, celando i propri sentimenti e non dicendo mai quello che pensa veramente. Una persona di questo tipo non desidera imparare dagli altri e non è capace di riflettere su se stessa – i due elementi che ci permettono di crescere come esseri umani.
Negli Insegnamenti orali il Daishonin spiega che nascondere le proprie colpe e propagandare le proprie virtù è arroganza, mentre essere attaccati alle proprie opinioni e non ammettere la possibilità di essere in torto è presunzione.22
Chi è nel mondo di Collera ha un senso spropositato dell’io: «Un Ashura è alto 84.000 yojana e le acque dei quattro oceani non arrivano oltre le sue ginocchia». Ma quando la sua illusione di grandezza viene infranta dalla presenza di qualcuno veramente superiore, si fa piccolo piccolo: «Un uomo arrogante s’impaurisce incontrando un forte nemico, come l’arrogante Ashura che si rimpicciolì e si nascose in un fiore di loto del lago Munetchi quando fu rimproverato da Taishaku».23
L’invidia è un’altra caratteristica del mondo di Collera. Si prova invidia verso chi gode di una posizione più elevata o più fortunata di noi, ma questo sentimento non induce a cercare di migliorare la propria condizione, bensì a trascinare gli altri al proprio livello. L’invidioso ha sempre paura che la propria inferiorità venga messa in luce dalla presenza di una persona superiore a lui e, per difendersi, cerca di denigrarla evidenziandone i difetti.
Scrive Ikeda: «Una mente arrogante è sempre inquieta, non riposa mai. Il Daishonin descrive così la visione distorta dei nemici del Sutra del Loto: “Quelli che non riconoscono i propri errori sono accecati dall’invidia [per il Daishonin], i loro occhi vedono tutto ruotare intorno a loro e hanno la sensazione che le montagne si muovano”».24
E ancora: «Il dramma della persona nel mondo di Collera è che vive costantemente nella paura che venga rivelata la sua vera natura. Chi non si preoccupa di proteggere se stesso, ma la Legge e le altre persone, ha un cuore di leone e non avrà mai paura».25

L’Umanità
Il mondo di Umanità è il primo passo verso la padronanza di sé che si ottiene pienamente nei mondi di Bodhisattva e Buddità.
Il termine sanscrito per “essere umano” è manusya, che significa “essere pensante” o “colui che pensa”: l’intelletto e la ragione sono i tratti caratteristici dell’umanità. Nichiren Daishonin afferma: «Il saggio si può definire umano, ma gli sconsiderati non sono nient’altro che animali»,26 e T’ien-t’ai cita, fra le caratteristiche del mondo di Umanità, «la capacità di conoscere con largo anticipo i futuri effetti delle cause», che significa avere una buona comprensione della legge di causa ed effetto.
La calma è il mondo di Umanità, scrive Nichiren,27 la tranquillità che deriva dalla pace della mente non più in balia delle emozioni dei quattro mondi precedenti. Ma per mantenere la pace della mente è necessario uno sforzo assiduo perché si può essere facilmente condizionati dalle influenze esterne: alla minima difficoltà, ci si deprime o ci si arrabbia.
Scrive Ikeda: «Oggi, nell’Ultimo giorno della Legge, è ancor più difficile vivere un’esistenza veramente umana perché siamo circondati da molti influssi negativi. Per questo dobbiamo sforzarci continuamente nella nostra pratica buddista. Quando una trottola smette di girare, cade. È stabile soltanto finché ruota ad alta velocità. Non è l’esser nati umani che ci rende davvero tali, ma lo sforzo tenace che facciamo per vivere da esseri umani».28
Il mondo di Umanità è un trampolino di lancio, una possibilità. Solo se coltiviamo la Buddità riusciamo a manifestare pienamente il nostro potenziale umano. Nel Buddismo il corpo umano è chiamato “recipiente dei nobili sentieri” o “recipiente della Legge”, adatto cioè a svolgere la pratica buddista. Scrive Nichiren Daishonin: «Ora sono nato nel regno umano, cosa difficile da raggiungere, e ho avuto il privilegio di udire gli insegnamenti del Budda che raramente è dato di ascoltare. Se trascorro questa vita senza fare nulla, in quale esistenza potrò liberarmi dalle sofferenze di nascita e morte e raggiungere l’Illuminazione?».29

Il Cielo
In giapponese ten, spesso è chiamato anche mondo di Estasi perché vi si prova un senso gioioso di realizzazione e appagamento. Cielo è la traduzione del termine sanscrito deva, che significa divinità o regno in cui dimorano gli esseri celesti. In origine significava luminosità.
Nell’antica India si riteneva che chi compiva buone azioni nella vita presente sarebbe rinato in cielo, e questo era il fine delle pratiche religiose. Il Buddismo invece ha sempre sostenuto che il paradiso o cielo non è un luogo fisico in cui si va dopo la morte, ma uno stato vitale da sperimentare. Nichiren Daishonin spiega che «la gioia è il mondo celeste»,30 una gioia che deriva dalla soddisfazione di un desiderio, dalla realizzazione di uno scopo.
«Il flusso vitale nello stato di Estasi è estremamente veloce – scrive Ikeda – e la sua influenza sul mondo esterno è molto grande. Il sé in questo stato percepisce che il tempo fisico passa a una velocità spaventosa. Quando siamo felici e la nostra vita è appagata, il tempo fisico sembra breve perché vi è compressa una grande quantità di tempo vitale. L’adempimento della vita in un singolo giorno nel mondo di Estasi può essere equivalente a quello di parecchie centinaia di anni nel mondo di Umanità».31
Il regno degli esseri celesti è costituito da ventotto cieli: i sei cieli del mondo del desiderio, i diciotto cieli del mondo della forma (un regno in cui, pur non essendo più schiavi del desiderio, si è ancora soggetti a limitazioni fisiche) e i quattro cieli del mondo della non-forma (un regno in cui si è ancora soggetti a limiti spirituali). La gioia che si prova è diversa a seconda del desiderio che viene soddisfatto, da quelli puramente materiali o legati istintivamente alla sopravvivenza (mondo del desiderio), ai desideri intellettuali, di bellezza, di elevarsi spiritualmente (mondi della forma e della non-forma).
Alla sommità del mondo del desiderio siede il Demone del sesto cielo, il potere. Rappresenta la gioia che deriva dal controllo sugli altri e sull’ambiente, la soddisfazione che si prova appagando i desideri di autorità, di dominio o di possesso. Il carattere essenziale del Demone del sesto cielo è quello di privare gli altri della vita, spingendoli nell’angoscia dell’Inferno, per realizzare i propri fini. È l’egoismo allo stato puro, la qualità più “oscura” dell’essere umano. «Se questa qualità oscura si rafforza – scrive Ikeda – anche il sé intelligente e consapevole nel mondo di Umanità o Estasi si può trasformare in un essere egocentrico e presuntuoso».32

L’impermanenza e l’attaccamento all’io
Si dice che anche gli esseri celesti siano destinati alla decadenza, descritta dai testi buddisti con l’immagine di fiori che avvizziscono. Quella del mondo di Cielo è quindi una felicità temporanea, mutevole come l’impermanenza dei fenomeni.
La gioia, la ricchezza, la posizione sociale o la fama sono effimere, così come la tristezza, la povertà, il dolore, eppure chi vive nei sei mondi inferiori percepisce tutti i fenomeni come sostanziali e immutabili. Ma le caratteristiche che riteniamo appartenere al nostro io e al nostro ambiente in realtà sono solo temporanee: una persona sana un giorno si ammalerà e morirà, un giovane invecchierà, oggi non sono la stessa persona che ero dieci anni fa.
Il Buddismo insegna a liberarsi dall’attaccamento all’io, ossia a non considerarlo fisso e immutabile bensì in continuo cambiamento, e quindi essenzialmente privo di sostanza o vuoto. Questo risveglio avviene soltanto guardando in faccia la realtà della vita e della morte, interrogandosi sul senso dell’esistenza, e ciò accade nei quattro mondi nobili, da Apprendimento a Buddità.

L’Apprendimento e l’Illuminazione parziale
Lo stato di Apprendimento (o Studio) e quello di Illuminazione parziale sono caratteristici del Buddismo antico o theravada. Il primo è quello dello shravaka (shomon in giapponese, “ascoltatore della voce”), il discepolo che ha acquisito la comprensione ascoltando gli insegnamenti del Budda. La seconda condizione è quella del pratyeka-buddha (engaku in giapponese), colui che ha compreso il principio dell’origine dipendente, ossia la non sostanzialità o impermanenza della realtà fenomenica.
Caratteristica di questi due stati è lo spirito di ricerca. Chi è nel mondo di Cielo considera il proprio stato come un risultato definitivo, mentre chi è nei mondi di Apprendimento e Illuminazione parziale lo vede come un “cammino intermedio”. Con il principio di origine dipendente capisce che tutte le cose sono interdipendenti e originano dalla combinazione di una causa e di una relazione: cambiando la causa o la relazione, la situazione cambia. Questo vale anche per l’io.
«Questo riconoscimento – scrive Ikeda – non esiste nel mondo di Estasi, in quanto in questo stato tendiamo a crearci un grande senso di benessere, di potere e di importanza. L’Estasi deriva dal fatto di aver ottenuto qualcosa per la quale abbiamo sperato e pregato, e siamo così propensi a farci sopraffare dalla felicità che rimaniamo delusi se pensiamo che non sia permanente. Quando ci scappa di mano, come sempre avviene, affondiamo ancora una volta nei cattivi sentieri. […] Mentre il sé nei mondi di Umanità ed Estasi concentra tipicamente la sua attenzione su quello che lo circonda, il sé nei mondi di Studio e di Illuminazione parziale guardaalla propria vita interiore e al significato più profondo della vita umana nel suo insieme.
[…] Nel parlare del mondo di Umanità ho usato l’analogia del sé che galleggia nel grande mare della vita che lo ha fatto nascere. Il sé in questo stato può avere qualità e desideri spirituali, come l’intelligenza, la bontà, la determinazione e la comprensione, ma gli manca la forza di concentrare la sua attenzione sulle correnti e le profondità del mare della vita. È troppo impegnato a mantenersi a galla, ma senza conoscere le correnti e le profondità rischia di venire risucchiato. Se vogliamo continuare con questa metafora, il sé nel mondo di Studio o di Illuminazione parziale è in grado, mentre combatte con le grosse onde della vita, di dirigere la propria intelligenza e la luce del proprio intimo nelle profondità del mare. È un sé riflessivo, che diventa fonte di luce alla superficie e che illumina le profondità. Questa luce è fatta di saggezza, bontà, amore e desiderio di conoscere la verità. La sua energia e il suo colore variano a seconda dell’individuo».33
Chi fa parte del mondo di Studio? Senz’altro studenti e discepoli, ma chiunque altro cerchi sinceramente e umilmente le esperienze e la saggezza degli altri. Ciò che impedisce a molte persone di sperimentare questo stato vitale è l’eccessivo orgoglio della superiorità della propria conoscenza (mondo di Collera). Quando lo scopo di chi studia è quello di accumulare sapere per aumentare il prestigio personale, si trova invece nel mondo di Avidità, perché il vero “studioso” è animato dal desiderio di arricchire il proprio spirito.
Il mondo di Illuminazione parziale è quello dell’intuizione, dell’ispirazione improvvisa. È lo stato vitale degli scienziati, dei filosofi, degli artisti. Ma anche di tutti coloro che studiano e riflettono su un particolare problema, cercando dentro di sé chiarimenti e risposte, e improvvisamente comprendono e risolvono. Ikeda fa esempi come quello della persona, «che dopo aver lottato incessantemente contro l’aumento dei prezzi, all’improvviso trova il modo di porre fine alla situazione; […] o ancora dell’uomo d’affari che improvvisamente capisce come gestire un progetto che aveva in mente da anni».34
«Tra la gente comune – continua Ikeda – la costante pratica di perfezionamento dell’anima che conduce all’Illuminazione parziale può creare pace e felicità in una casa, come anche importanti cambiamenti nelle strutture sociali, politiche ed economiche».35
Ma allora perché, nonostante il profondo senso di autorealizzazione che si prova in questi due stati, malgrado essi siano caratterizzati da saggezza, felicità e da una profonda comprensione della vita, il Buddismo mahayana precedente al Sutra del Loto li considera al di sotto addirittura dei tre cattivi sentieri, arrivando a sostenere che chi vive in questi due mondi non potrà mai ottenere l’Illuminazione?
«Le persone dei due veicoli – scrive Ikeda – consapevoli che niente al mondo è permanente, comprendono la necessità di migliorare e progredire costantemente. Ma quando credono che la condizione che hanno raggiunto sia definitiva e se ne compiacciono, paradossalmente non appartengono più ai due veicoli. E in quel momento regrediscono nei sei sentieri».36
E qui possiamo parlare ad esempio della “neutralità” della scienza: gli scienziati di Los Alamos che costruirono la bomba atomica di Hiroshima, convinti che quello fosse l’unico modo di fermare Hitler, misero le loro grandi capacità al servizio della guerra e quindi del mondo di Collera. La grande scoperta di Enrico Fermi della fissione nucleare, frutto di intensi sforzi, ebbe come primo e visibile effetto centinaia di migliaia di morti.
Si può fare anche l’esempio dell’artista “maledetto”, capace di grandi intuizioni e realizzazioni nel suo campo, che però trascina nel suo Inferno di sofferenza chi gli sta vicino; o anche il grande ricercatore in campo medico che mette a punto un nuovo farmaco molto efficace ma lo tiene nascosto ai colleghi fino a quando non gli si manifesta la possibilità di usare tale scoperta per accrescere il proprio prestigio o le proprie ricchezze.
Il Daishonin spiega che senza il Sutra del Loto è impossibile sfuggire alla trasmigrazione nei sei sentieri. Le grandi capacità che si manifestano nei mondi di Apprendimento e di Illuminazione parziale, se non sono animate dal desiderio di condivisione e di compassione, portano all’egoismo e al disprezzo degli altri; quindi il sé, da una condizione vitale di appagamento e felicità, torna a sperimentare le sofferenze dei mondi più bassi.

Il Bodhisattva
«Nel mondo di Bodhisattva – scrive Ikeda – la vita interiore è sostenuta dalla forza della compassione. Con la forza della compassione intendo parlare di una forte energia che fluisce dalle profondità interiori della vita umana, che include intelligenza, bontà, saggezza, e un gran numero di desideri spirituali. Il sé è nello stato di Bodhisattva quando tutte le sue migliori qualità – saggezza, amore, determinazione e coraggio – si fondono con l’energia della compassione, nel desiderio di fare del bene agli altri. […] L’altruismo è il mezzo più efficace per la realizzazione e il perfezionamento di se stessi. Fare del bene agli altri è il modo migliore per perfezionare il proprio carattere e per trovare una maggiore felicità per se stessi».37
Abbiamo più volte detto che l’egoismo è fonte di grande sofferenza: l’individuo ripiegato su se stesso, in balia delle sue emozioni, è privo di libertà: «Nel bodhisattva – scrive ancora Ikeda – la lotta per aiutare gli altri è in se stessa un attacco frontale al sé egoista».38
E ancora: «Quando aiutiamo un altro a ritrovare la forza di vivere, anche la nostra forza vitale aumenta; quando lo aiutiamo a espandere il suo stato vitale, anche la nostra vita si espande. Questa è la cosa meravigliosa della via del bodhisattva: far del bene agli altri è far del bene a noi stessi. Ma sarebbe arroganza dire che “noi facciamo del bene agli altri”, sarebbe ipocrisia dire che “noi salviamo le persone”. Solo quando capiamo che ciò che facciamo per gli altri lo facciamo per il nostro bene, stiamo praticando con vera umiltà.
[…] C’è una famosa favola che illustra efficacemente questo punto. Una persona va all’inferno e scopre che tutti soffrono perché, pur avendo di fronte un sontuoso banchetto, non riescono a mangiare. È per via delle posate che sono più lunghe delle braccia e non permettono di portare il cibo alla bocca. Poi la stessa persona va nella terra del Budda. Anche lì le posate sono più lunghe delle braccia delle persone, ma tutti sono contenti perché s’imboccano l’un l’altro».39

La Buddità e la trasformazione del karma
Il mondo di Buddità è uno stato di libertà assoluta. È definita assoluta perché è insopprimibile e indipendente: essendo una condizione vitale dell’essere umano, possiamo farla emergere in ogni istante dalle profondità della vita, acquisendo la saggezza per giudicare chiaramente e la forza d’animo per non lasciarsi influenzare dalle proprie tendenze negative e dal giudizio degli altri. Siamo liberi di attingere senza limiti al potere del Budda perché lo possediamo da sempre.
Pur avendo la possibilità di sperimentare tutti i dieci mondi, in genere viviamo principalmente solo in alcuni di essi perché la tendenza karmica individuale, costruita dalle cause poste nel passato, ci lega a una condizione vitale in maniera talvolta permanente. C’è chi è collerico, pigro, depresso, studioso, filantropo, e ciascuno di questi caratteri ha una modalità tipica di reagire agli eventi che continua ad alimentare la tendenza karmica di base. Si può, di volta in volta, sperimentare altri stati vitali, ma come una molla che dopo essere stata tesa riassume la sua forma originale, si torna sempre alla tendenza di partenza. Solo trasformando la nostra condizione vitale a un livello più profondo potremo cambiare la nostra tendenza basilare.
La Buddità è la libertà dal karma: c’è sempre quindi la possibilità, facendo leva su questo stato vitale, di imprimere alla nostra vita una direzione nuova, pura, indipendente dalle nostre paure e dai nostri pregiudizi. Una direzione basata e sostenuta dalla fede nel Gohonzon, che emerge attimo dopo attimo facendosi largo tra i nove mondi. «Per fare un’analogia – scrive Ikeda nelMondo del Gosho – l’apparizione del mondo di Buddità è come il sorgere del sole. Quando il sole sorge a est, le stelle che brillavano così vividamente nel cielo notturno svaniscono immediatamente. In realtà non hanno cessato di esistere, sono soltanto diventate invisibili. La loro scomparsa contrasterebbe con il principio di causa ed effetto. Ma così come la luce delle stelle e della luna sembra svanire quando sorge il sole, quando facciamo emergere lo stato di Buddità nella nostra vita cessiamo di soffrire per gli effetti negativi di ogni singola offesa passata».40
«Ottenere la Buddità – scrive ancora Ikeda – significa fare del mondo di Buddità la nostra tendenza vitale fondamentale. Naturalmente avremo ancora i nove mondi, e di conseguenza preoccupazioni e sofferenze. Ma alla sua base, la nostra vita sarà caratterizzata da speranza, gioia e pace della mente.
Il presidente Toda spiegava: “Anche quando ci ammaliamo, dovremmo pensare: ‘Va tutto bene. So che recitando di fronte al Gohonzon mi sentirò meglio’. Buddità non significa forse esser capaci di vivere con assoluta fiducia e tranquillità? Dato che il mondo di Buddità contiene i nove mondi, a volte ci capiterà ancora di arrabbiarci o di preoccuparci. Godere della pace della mente non significa cessare di sperimentare la collera o l’ansia. Un problema rimane comunque un problema. Ma, sotto a ogni turbamento, proveremo una profonda sensazione di pace mentale. Chi è in questa condizione è un Budda”.
[…] Secondo un proverbio giapponese, cercare di raddrizzare le corna alla mucca può ucciderla. Invece di accanirsi sui piccoli difetti, nella maggioranza dei casi è meglio progredire senza preoccuparsi, con grande speranza e grandi scopi. In tal modo se si vive avendo fiducia in sé e con vigore, i nostri difetti scompaiono naturalmente. Per esempio, l’impulsività si trasforma in capacità di agire.
Ciò vale anche per la crescita personale. Possiamo essere completamente noi stessi, non c’è bisogno di cercare di apparire diversi da come siamo. Se, da persone comuni, facciamo di kosen rufu il nostro scopo, il mondo di Buddità diventerà la nostra tendenza fondamentale. Allora ci arrabbieremo al momento giusto, soffriremo quando ci sarà da soffrire e rideremo se ci sarà da ridere. Così facendo avanzeremo a grandi passi verso la felicità assoluta e aiuteremo anche gli altri a farlo».41

Buddismo e Società n.103 – marzo aprile 2004

NOTE
1) Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, p. 271
2) ibidem, vol. 1, p. 213
3) Il Sutra del Loto, Esperia, pp. 334-335
4) D. Ikeda, I misteri di nascita e morte, Esperia, p. 133
5) D. Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, vol. 3, p. 148
6) ibidem, p. 198
7) Nichiren Daishonin, Gosho Zenshu, p. 401
8) Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 1, p. 217
9) D. Ikeda, Il mondo del Gosho, Esperia, p. 290
10) ibidem
11) Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 1, p. 220
12) D. Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, vol. 3, p. 120
13) ibidem, p. 121
14) Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 1, p. 220
15) T’ien-t’ai, Hokke Mongu, IV
16) Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 1, p. 220
17) ibidem, vol. 4, p. 74
18) Buddismo e società, n. 97, p. 38
19) Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, p. 75
20) Nichiren Daishonin, Gosho Zenshu, p. 430
21) Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 1, p. 220
22) Nichiren Daishonin, Gosho Zenshu, p. 718
23) Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, p. 75
24) D. Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, vol. 3, p. 142
25) ibidem, p. 133
26) Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, p. 179
27) ibidem, vol. 1, p. 220
28) D. Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, vol. 3, p. 145
29) Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 7, p. 89
30) ibidem, vol. 1, p. 220
31) D. Ikeda, La vita mistero prezioso, Sonzogno, p. 122
32) ibidem, p. 127
33) ibidem, pp. 130-131
34) ibidem, pp. 133-134
35) ibidem
36) D. Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, vol. 3, p. 156
37) D. Ikeda, La vita mistero prezioso, p. 138
38) ibidem, p. 140
39) D. Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, vol. 3, pp. 171-173
40) Buddismo e società, n. 102, p. 64
41) D. Ikeda, La saggezza del Sutra del Loto, vol. 3, pp. 196-197

203999058092443353_yZof8051_cDopo aver letto e commentato il post di @claudiogi61 ho riflettuto a lungo su quello che ci si aspetta dal futuro, su ciò che ricordiamo del passato, su come riusciamo a vivere il momento presente. Ho riflettuto a lungo anche sul concetto di libertà. Libertà interiore, personale. Libertà dalle influenze esterne, che significa profonda coerenza con ciò che si crede giusto per se e per gli altri. Coerenza con la propria etica di vita. Libertà di decidere anche di rinunciare a ciò che sembra gratificarci nel presente se si capisce che è giusto per il nostro futuro.

Temi e concetti fondamentali per tutti, ma sicuramente dibattuti e approfonditi da chi come me pratica il buddismo da tanti anni. E casualmente, ma il caso – si sa –  non esiste, sono capitata su una serie di articoli pubblicati da @passoinindia  tratti da “Buddismo e Società” rivista buddista della Soka Gakkai Italiana, associazione laica buddista di cui faccio parte. Gli articoli riportano una “lezione” su Karma e legge di Causa ed Effetto, concetti base della filosofia buddista di Nichiren Daishonin, scritta da Sabrina Guzzanti.

E’ interessante leggerli tutti, ma ne riporto qui una piccola parte.

Se è vero che il presente è modellato dal passato, è vero pure che il presente modella il futuro. Per questo Nichiren Daishonin cita un brano del sutra Shinjikan: «Se vuoi conoscere le cause passate guarda i risultati che si manifestano nel presente, se vuoi conoscere gli effetti che si manifesteranno nel futuro, guarda le cause che stai ponendo nel presente».
Il presente è quindi la chiave di tutto. Difficile da afferrare, da descrivere, da comunicare (appena lo nomini è già passato), è la parte più pura e incontaminata della vita e in esso, secondo il Buddismo, è custodito un potere immenso. Infatti il principio di ichinen sanzen (tremila mondi in un singolo istante di vita), che lo studioso cinese T’ien-t’ai (538-597) formulò come spiegazione teorica di Myoho-renge-kyo, altro non è che la descrizione minuziosa di tutto ciò che contiene ogni singolo istante di vita, ovvero l’attimo presente. Dall’aspetto esteriore alle potenzialità, alla sua storia passata, alla sua particolare relazione col mondo, alla relazione del mondo con esso, a tutte le sue qualità, buone e cattive, costruttive e distruttive, alle diverse sfere dell’universo con cui entra in relazione, tutto questo e altro è contenuto in un singolo istante. T’ien-t’ai e i suoi coltissimi e dotati discepoli meditavano su questo principio per cercare di aprire la mente e renderla adeguata alla complessità della realtà.
Il presente è il luogo che tutti cerchiamo, l’unico che può darci sollievo e gioia.
Ma pur essendo lì alla portata di tutti noi, sono rari i momenti in cui riusciamo a starci dentro. È come se ci fossero mille correnti che ce ne allontanano. Queste correnti sono per l’appunto il karma.

Io lo so che dovrei essere più aggiornata sugli oroscopi.

E mi era sfuggito l’Internazionale di questa settimana:

Leone

23 luglio – 22 agosto

Ecco, se solo lo avessi letto mi sarei fatta gli affari miei e non mi sarei messa a girovagare nei blog altrui criticando e inalberandomi per affermazioni di cui mi sarei pure potuta non occupare. Invece più tignosa di una mula mi impiccio e critico e ribatto e così ora tutti penseranno che sono una scassaballe.

Vabbè, pazienza. Sarà karma.

Da oggi solo elogi, complimenti e ringraziamenti. Sappiatelo.

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